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In libreria/ Paola Sarcià. Trema anche la Luna 
La prefazione di Barbarah Guglielmana
03 Agosto 2014
 

 

Quando il cielo sprigiona il vento 

creature di nuvole

volteggiano in antiche danze

lusingano il tuono

generano acqua

sulla terra sterile

 

 

Ho nuotato nei versi di Paola Sarcià. Ho nuotato nelle sue acque: ho nuotato nel suo mare e ho nuotato nelle sue lacrime. «Radici di vita / ti consegnai alla luce / oggi, hai occhi velati / da ali di cicala».

Un iniziale rapporto con la natura, che si estrania e che poi dirompente rientra a dare la sua forza, a rinvigorire quella umana devastata dal suo materialismo, e natura che ancora si riallontana per viversi da sé e poi amalgamarsi nell’amore, nell’amare il prossimo, partendo da quel sentimento panteistico che non sappiamo più riconoscere. «Arenata sulla secca del tempo ... / dove l’attimo è eterno / l’alba un ventaglio di cristallo / il mare una lastra di cielo»: è in questi versi che l’autrice esprime e riconosce uno spazio di eternità alla natura. E lo dichiara.

Ho letto le sue poesie in una condizione ideale: nella luce piena di giugno e nell’ambiente più idoneo, quello dell’isola di Pantelleria dove la natura guarda ancora l’uomo come essere che rimane al suo posto, con le onde ed il vento a muovermi l’animo, che veniva cullato tra il mare e il cielo dalle poesie di Paola Sarcià, in versi magici, armoniosi, con orizzonti infiniti e non tracciabili, né dallo sguardo delle parole né dalle emozioni tentate, come il gusto della vita al sapore delle stelle:

«Scrivo su pergamene d’acqua / affondano gocce d’inchiostro / riemergono corone invisibili / danzano alfabeti d’anima».

Nella prima parte della raccolta l’autrice ha lasciato il proprio io, l’io umano infatti è stato donato – o… prestato? alla natura, della cui sostanza però andiamo scoprendo di essere fatti, di cui vorremmo, desidereremmo, essere ancora fatti. Natura da cui derivavamo, a cui un tempo ritornavamo: «Riconosco la vita / nel fremito immobile / della quercia arresa al gelo / Il tempo si placa su rami ossuti / Invano, ritardo / lo scorrere dei palpiti tra le dita». E quando l’umano sembra assente, e quando l’umano sembra scomparso, è attraverso la voce magica della figura della poetessa che ritorna viva la voce del nostro essere: «Irrequieta / nella solitudine di vicoli angusti / cerco squarci di orizzonte / ai crocevia / appagherò l’anima errante / di un miraggio di fuga» e la stessa riemergerà in «Voli sbriciolati tra le dita / mescolati alla sabbia / d’illusori avamposti / prede dell’alta marea».

Sono poesie brevi, come la brezza che sa solleticare una pelle addormentata, e insieme intervallate da lunghe righe di pensieri, come cieli che ti sanno guardare, sono insieme versi e righe a formare e a scandire i tempi interni dell’autrice, in questa raccolta dal titolo lirico Trema anche la luna. Questo astro scambia i ruoli, connota un umano alla natura, che attraverso la nostra proiezione ci rimanda un sentire di noi che stiamo rischiando di anestetizzarci, di congelare, di brillare di luce fredda, come se si andasse ad appartenere ad un’era in declino, ad un’era glaciale appunto, quella dello sguardo del nostro cuore. Addormentato o morto.

Perdersi nei versi di una luna che trema è un perdersi in se stessi, forse anche non trovando una trama né in terra né in cielo, ci si può smarrire, ma è la poetessa stessa che si fa guida, interviene spiegandoci, spiegandosi, con parole che interrogano nelle pause dei suoi versi: «Mi affascina la libellula / generata nell’acqua / essenza di cambiamento / negli anni tramutata / in creatura di luce e di vento...» E fa una pausa, come quelle che noi non ci concediamo più, come quelle che noi non apprezziamo più, sempre in corsa per nuove mete compulsive.

Versi poetici della poetessa che vedevo nelle mie onde, quelle dell’isola dove passavo le vacanze qualche settimana fa, e quelle nelle pieghe della mia anima dove passano i miei turbamenti anche oggi, sollievi filtrati dall’arte e dolori ingranditi da quella stessa sensibilità mostrata a vedere che anche una luna può tremare, come nei troppi filmati dalla cronaca, a cornice le sue righe di narrazione che abbracciano le poesie, prima a dire al lettore che la natura è: “L’ancella solitaria di una forza sconosciuta che affranca dall’oppressione del quotidiano...”, suggerendoci che è alleata alla nostra salvezza, come in un’amicizia, e che ci può aiutare ad affrontare il presente, parte di quell’eternità per: «Respirare il silenzio / avvinghiato al corpo / carpirne la linfa / per rinascere creatura d’ali e di vento».

E a scoperchiare il cielo dall’azzurro, sotto pieno di temporali, la realtà dei fatti: «Fiori recisi / derubati del profumo / dell’innocenza / adagiati sulla polvere / esposti all’aria complice / di fantasmi di morte / La dignità di chi resta ingoia / lacrime e filastrocche / senza voce». E la poesia di Paola da pascoliniana si fa più chiaramente poesia sociale, perché non si possono palesare vendemmie a chi non le vedrà: «Non si donano grappoli d’uva / ai bambini festosi / se il cielo si squarcia / nel fetido rigurgito / di odio e di vendetta». ...Volassero colombe / nel cielo di Siria...

E seguono le spiegazioni delle giustificazioni che questa società può darsi, vuole cercarsi per le ingiustizie che la impregnano. È un invito, quello che ci urla - che ci versifica, quello che ci versa sulla carta l’autrice di questo libro, apparentemente fatto d’aria, ma in realtà composto di acqua salata di mare e di lacrime umane, non solo ad ascoltare la rabbia delle nuvole, la pazzia del vento, le albe sfocate oppure opalescenti, un cielo indaco screziato di drappi rosa, le emozioni profumate di terra e girasoli e fiori notturni, il canneto spettinato che ascolta il fruscio dell’acqua, quelle libellule trasparenti e quelle stelle di pietra, la sabbia vergine, o quell’amore che si fanno il mare e il cielo: «... il ventre stretto nelle mani / mentre gridi il mio nome...», un invito a vedere cosa passa sullo schermo del televisore ma “Nulla turba lo spezzare del pane sulla tavola imbandita...”, lei ci dice con vergogna, con imbarazzo e quasi anche senza più incredulità.

«Ci immaginiamo dèi / esibiamo sicurezza / tessiamo imperfezioni / mascherate di grandezza / per eludere / la nostra immagine scomposta».

E uscendo dalla dimensione poetica la Sarcià entra in una opinionistica, esistenziale anche con se stessa: “Da dove siamo partiti per giungere a questo? E nel tragitto, dove ci siamo persi, quale sentiero non segnato ci ha condotto verso il più facile?”. E prova a darsi una personale soluzione: “Ho visto abbastanza lune attraversare il cielo per desiderare di deviare da quel binario, meglio ascoltare il lamento di chi soffre, di chi è oppresso, spogliarmi della veste bianca dell’indifferenza per accorgermi dell’altro che mi passa accanto, magari anche solo per un attimo”. E poi riprende a poetare: «Al di sopra della linea d’ombra / degli alberi / uno spicchio di luna / pigmentato d’autunno / un sorriso abbozzato / consola l’anima / prima di svanire fra le nubi».

L’attenzione di questo lavoro poetico prima rivolto alla natura e poi all’urlo cieco dell’umanità, cerca nel viaggio degli scritti di riunire nelle sue contraddizioni poetiche e nelle sue offese realtà, l’essere umano al cosmo: «Sono roccia / partorita dall’acqua / offerta all’aurora / in un calice di spuma / nascondo ferite / di radice divelte / ostaggio delle correnti marine / Sono terra / assolata e odorosa / di profumi selvatici / di occhi bagnanti di sale / sorridenti di vita».

E il tempo, collante del nostro vivere, ci lascia una realtà poetica su cui fluttuare ancora: «... giorno e notte si susseguono e si confondono, mutilate di attese».

 

Barbarah Guglielmana

 

 

Paola Sarcià, Trema anche la Luna

EIF, 2014, pp. 70, € 10,00


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