L’articolo 21 della nostra Costituzione sancisce che Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione; concetto ribadito dall’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che recita: ogni persona ha diritto alla libertà di espressione.
Si tratta di un imprescindibile diritto, da cui sgorgano altre libertà democratiche.
Ognuno detiene questo diritto, ognuno deve poterlo esercitare. Si comprende quanto, per un giornalista, esso sia caratterizzante e quanto dovrebbe essere tutelante.
Nel sito dell’Ordine dei Giornalisti O.D.G. è interessante leggere quanto segue all’articolo 3.1 sul diritto di critica: «In linea teorica non può negarsi che la critica sia legittima anche quando ha ad oggetto l’attività giudiziaria. La libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 della Costituzione, come dall’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee o critiche su temi d’interesse pubblico, dunque soprattutto sui modi d’esercizio del potere qualunque esso sia, senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche».
All’interno delle società democratiche deve di conseguenza riconoscersi alla stampa e ai mass media il ruolo di fori privilegiati per la divulgazione e per il dibattito in genere su materie di pubblico interesse, ivi compresi la giustizia e l’imparzialità della magistratura.
Tante volte, e da che autorevoli giornalisti (penso a Montanelli, a Costanzo, a Travaglio…) abbiamo sentito dire che i giornalisti sono i cani da guardia della democrazia e delle istituzioni, anche giudiziarie.
Su questo principio si è basata la giurisprudenza della Suprema Corte nelle sue esternazioni su come sia, da un lato, «di enorme interesse per la comunità nazionale la corretta e puntuale esplicazione dell’attività giudiziaria e, dall’altro, come critica e cronaca giornalistica volte a tenere o a ricondurre il giudice nell’alveo suo proprio vadano non solo giustificate, ma propiziate».
Un giornalismo che riporti fatti, che pungoli disattenzioni o ritardi delle istituzioni, se non addirittura sappia indagare su disfunzioni e malefatte delle stesse, naturalmente con le prerogative sue proprie, entro la legalità e la deontologia del proprio mestiere, è un giornalismo che arricchisce e a cui, democraticamente, si può rispondere, scegliendo il campo del confronto, sostenendo con altrettanti fatti le proprie ragioni.
In quest’ultimo ventennio, dominato dal personaggio politico di Berlusconi, con tutto ciò che significa a prescindere dalle proprie idee politiche a sostegno o contrarie, nessuno di chi abbia seguito con costanza l’agone di quell’attualità può negare di essersi scontrato giornalmente con frasi, vignette, barzellette, fino ad articoli e inchieste – quindi passando dalla satira alla cronaca – ove trovare di volta in volta esempi di dileggio, di scherno, di critica pesante, di offesa a questo o quel protagonista di questo o quel partito.
Anche a firma di autorevoli cronisti, non solo tra il virgolettato di dichiaranti di ogni tipo.
Nel prosieguo della nostra storia recente, c’è poi stato di tutto e sempre di peggio: dal dito medio alzato, ai vaffa, agli insulti al ministro Kyenge… dalle invettive a commento di fatti accertati alle diffamazioni gratuite di giornalisti o di magistrati, per fare degli esempi, che nulla avevano fatto di ciò che si imputava loro.
Sempre nel sito dell’O.D.G. leggiamo che: «In tema di diffamazione, ai fini dell'applicabilità del diritto di critica, la “continenza” delle espressioni utilizzate va apprezzata tenendo conto che, soprattutto per l'intervenuta influenza del mezzo televisivo sul mutamento del linguaggio, quello usato dai cittadini, dagli uomini politici, dai sindacalisti e dai cosiddetti “opinion leaders” è molto mutato nell'ultima parte del secolo scorso. L'utilizzo di un linguaggio più disinvolto, più aggressivo, meno corretto di quello in uso in precedenza riguarda ormai sia il settore dei rapporti tra i cittadini, sia quelli dei rapporti politici e della critica politica, sindacale e giudiziaria, derivandone un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale: siffatto modo di esprimersi e di rapportarsi all'altro, infatti, se è certamente censurabile sul piano del costume, è ormai accettato (se non sopportato) dalla maggioranza dei cittadini, i quali, pur contestando non di rado l'uso di un linguaggio troppo aggressivo, stentano a credere che si debba fare ricorso in tali casi alla sanzione penale».
Questo naturalmente non significa che ciascuno non possa, o debba per senso morale e civico, farsi un’opinione propria su ciò che legge o su coloro che scrivono o si esprimono in un dato modo, ma che non necessariamente ad ogni provocazione debba far seguito una reazione, talvolta esagerata o inopportuna. Perché la tutela di quel diritto di espressione tanto importante deve essere e rimanere nei nostri pensieri.
«In tema di diritto di cronaca e di critica» andiamo avanti a leggere nel sito dell’Ordine «i termini adottati ed il taglio dato ad un articolo di giornale costituiscono emanazione della cultura, sensibilità ed esperienza del redattore ed implicano un livello di partecipazione personale, più o meno elevato, che necessariamente fa degradare l'obiettività assoluta dell'informazione a canone tendenziale. È però questo il contenuto del diritto di critica, cioè il diritto del giornalista di esprimere la propria visione della vita e della società. Deve quindi ben distinguersi la cronaca dalla critica, riconoscendo che con quest'ultima si manifesta la propria opinione, che non può pertanto pretendersi assolutamente obiettiva e che può essere esternata anche con l'uso di un linguaggio colorito e pungente».
Se nell’esercizio del diritto di cronaca di un giornalista il magistrato ravvisa i termini della diffamazione, significa che non ha operato la scriminante cioè non è stato rilevato: a) un interesse pubblico alla notizia; b) i fatti narrati non corrispondevano a verità; c) l’esposizione dei fatti non era stata corretta e serena, secondo il principio della continenza.
Se invece si tratta di diritto di critica, definito come libertà di esprimere giudizi, valutazioni e opinioni, la dottrina e la giurisprudenza prevalente ricostruiscono le stesse condizioni adattandole alla peculiarità del caso. In particolare, sul requisito della verità, se la critica riguarda un fatto è necessario soltanto che quello sia vero, non potendosi pretendere ontologicamente la verità su opinioni e valutazioni. Viene, tuttavia, richiesto che la critica non si spinga sino ad arrivare all'offesa ed all'umiliazione pubblica dei propri avversari.
La giurisprudenza ha inoltre specificato che per quanto riguarda in particolare la critica politica e sindacale il limite della continenza verbale sia da intendere in modo più ampio, purché la critica non si risolva in gratuiti attacchi personali.
Fatte queste premesse, potrebbe essere un esercizio di riflessione interessante valutare “l’avventura” del nostro piccolo mensile di provincia, con duemila copie di tiratura e qualche centinaia di abbonati, il quale si è trovato – esercitando il proprio diritto di critica – ad esprimere il proprio dissenso circa l’operato messo in atto dai protagonisti istituzionali di un fallimento locale.
Dissenso espresso con una serie di articoli apparsi tra il 2000 e il 2001, ritenuti per sé diffamatori dal curatore del predetto fallimento, a causa del cui contenuto vi è stata una condanna in Corte d’Appello nel 2008 (confermata dalla Cassazione nel 2011), comminata all’autrice degli articoli, al direttore e all’editore, con relativo versamento al curatore di complessivi 29.055,23 euro (maggio 2009) da riferirsi a risarcimento, spese dei tre gradi di giudizio più spese accessorie e procedura. Il Tribunale di Sondrio, in prima istanza, aveva rigettato la domanda del curatore, non ravvisando il carattere diffamatorio degli articoli, e aveva altresì archiviato due querele penali ulteriormente presentate dal curatore.
In seguito, in un altro pezzo del 2004, l’articolista ha utilizzato la locuzione “pugno di ferro” per caratterizzare l'operato del giudice delegato (“Il pugno di ferro del dr. F. ha colpito due generazioni della famiglia G. e ora si appresta a colpire la terza”) ed è proprio questa frase ad essere stata considerata diffamatoria, questa espressione afferente il diritto di critica, secondo il giudice Paolo Mainardi del Tribunale di Brescia, a determinare nel novembre 2009 la condanna, ora passata in giudicato essendo stato rigettato il ricorso in Cassazione, del nostro direttore e dell’autrice dell’articolo in questione. 600 e 400 euro di multa (avendo i nostri rinunciato alla prescrizione che sarebbe intervenuta già al momento dell'appello, ricorderete in proposito la nota di G. Camero di giugno 2012) cui si aggiungono 10.000 euro di risarcimento danni alla parte civile, 8.278,92 euro di spese per i tre gradi di giudizio e 632,57 euro di interessi legali (come dai rispettivi assegni emessi al magistrato sondriese il 7 giugno scorso, riprodotti in copia nell'illustrazione allegata).
Un mese dopo, nel dicembre 2009, il curatore ha chiesto al Tribunale di Sondrio, e in principio ottenuto, con ricorso d’urgenza (dopo che erano passati ormai quasi due lustri dalla pubblicazione dei primi articoli) la rimozione degli articoli dall’archivio on-line del giornale. Lo stesso tribunale ha poi disposto la revoca di tale ordinanza di sequestro, perché ha riconosciuto non si potesse procedere a una tale richiesta se non dopo sentenza definitiva di condanna, come infatti subito contestato dal Gazetin.
Al di là di altre considerazioni, che ognuno se vorrà potrà maturare seguendo le proprie impressioni più o meno interessate a un discorso tanto ampio e che si presenta come un vero ginepraio: c’è proporzione tra la causa e la conseguenza? Tra l’offesa e la repressione del diritto di critica?
Per finire, resta pure un’altra condanna per ‘l Gazetin, sempre per diffamazione nei confronti del giudice delegato al fallimento in questione: questa volta è reato aver pubblicato la foto di un noto manifesto storico del 1944 che ritrae un pugno di ferro che schiaccia un gruppo di partigiani (esposto al Museo del Risorgimento di Milano) a corredo di un articolo sul caso, del 2008. Settemila euro perché – recita la sentenza – l’immagine, così proposta, travalica i limiti del diritto di satira (anche se il testo dell’articolo, precisa la sentenza, non travalica i limiti dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica come da tempo elaborati dalla giurisprudenza).
Annagloria Del Piano
(da 'l Gazetin, giugno-luglio 2014
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