Lo spettacolo è frutto della drammaturgia partecipata dell’intero paese che, in una vera e propria “tradizione sperimentale”, si rinnova da 48 anni. Il nuovo autodramma si intitola “Tempi Veleniferi”, con la regia di Andrea Cresti
Lo spettacolo inizia con un prologo. Sul palco si incrociano in maniera indistinta tre tempi è il 7 aprile 1944, la comunità del borgo valdorciano schierata davanti le mitraglie dei soldati nazisti, pronti a punirla per l’aiuto dato ai partigiani nella battaglia del giorno precedente; è però anche il 2014 e quella stessa comunità, ormai anche comunità, “teatrale”, si trova sull’orlo di un altro abisso: vi cadrà dentro o da lì potrà vedere più in profondità, scoprendo la visione di futuri possibili, ma molto lontani di vive speranze. Infine: c’è un tempo ulteriore che si materializza su quel palco, con la sua storia contadina, lo abita e lo rianima con vita vissuta e risata ristoratrice.
Questo mondo contadino che si presenta con un ‘tempo indistinto’, con l’energia della lingua valdorciana, scintilla di vitalità, conservazione e rigenerazione di un mondo che non crede alla fine di niente, perché ‘quel mondo’ è un ciclo di ritorno come le stagioni del ‘campo’. Ed è questo terzo tempo che si impone: sovrasta gli altri due, dà loro un ritmo, una danza di incroci in cui poter mettere in luce: paure, sentimenti, emozioni, dando forma ad altre angosce. La cadenza di una tipica commedia contadina, scritta tempo fa da un membro della compagnia (Osvaldo) e opportunamente rivista, viene dunque interrotta da incursioni, salti temporali, slittamenti e riprese. Entrano con violenza e arroganza approfittatori della disperazione, gli imbonitori abili di false promesse e seduzioni, ciarlatani e maghi dispensatori di speranza a basso costo, di soldi facili e fortune inusitate, promotori di improbabili giochi della cuccagna.
Da quel tempo contadino arriva però un’altra possibilità: nuove trame da costruire con l’abilità un po’ sghemba di un allegro tessitore, del servo, dell’umile garzone che sa di aver poco ma con quel poco poter molto creare. Fino a sognare di raggiungere la sposa tanto desiderata: quel futuro che, forse, si può ancora acchiappare…
Infine, un canto, l’epilogo: i tempi tornano a confrontarsi, gli attori tornano abitanti, l’incertezza è ancora quel bivio tra esserci e scomparire tra palco e piazza.
La speranza di raggiungere i 50 anni di teatro si concretizza con una magica presenza avvolta di bianco, come una “dea” che accarezza quel palcoscenico con lo sguardo e danza con gli attori, mentre i rumori e le inquietudini si concretizzano come ombre e presagi, ma quel miraggio di “Teatro” ha avvolto la scena attraverso l’“incantesimo” e la ‘fiducia’ di un tempo non troppo lontano.
Diceva il grande poeta Mario Luzi, che molto aveva vissuto in Val d’Orcia e amato la sua gente:
«Ma ciò che più a fondo ci fa riflettere nel caso di Monticchiello e del suo teatro, è proprio l’esistenza, ancora, di una comunità vera e propria; voglio dire di una società compatta e solidale. È la condizione stessa, è anche la causa propiziatrice di quella concezione teatrale, della sua riuscita. Solo per questo il teatro di Monticchiello è il teatro per eccellenza, il teatro integrale e anzi il teatro nella sua stessa origine.
Così infatti nacque, nella nostra cultura mediterranea, la tragedia; la commedia non fu che la faccia “altra” di quel discorso che promanava dalla città.
Il sentimento e l’umore della polis erano lì espressi dal coro: in questo ripensamento di sé di un intero gruppo, che proprio a Monticchiello, non ci sono protagonisti né deuteragonisti, la coralità è piena.
Il teatro fondamentale, ci ammonisce l’esperienza valdorciana, esige e presuppone ciò che oggi manca del tutto: una società omogenea, una non disintegrata comunità che condivida aspirazioni e richieste sulla base di leggi, principi e valori reciprocamente compresi.
Monticchiello ha difeso questa peculiarità civile: nel suo manifestarla, l’ha fatta risplendere come perla.
Eppure si osservano e drammatizzano nei suoi copioni motivi di contrasto e di lacerazione della compagine: in un paese senza storia visibile, l’assenza di storia può essere da minimi segni o episodi straordinari causa stessa di traumi.
Ma sono traumi che hanno risonanza appunto in un ambiente umano concluso nella propria identità. L’intelligenza della drammaturgia valdorciana mi pare consista nel far giocare tra “conclusione” ed esclusione.
Non so se ci siano uscite o sviluppo attendibili o solo ripetizioni e riprese ex novo. Ma anche se l’esperienza di Monticchiello dovesse circoscriversi in sé, istintivamente, non sarà mai solo nostalgia, ma forza di esempio il motivo che ce la richiamerà alla mente».
TEATRO POVERO DI MONTICCHIELLO
25 luglio -13 agosto
Piazza della Commenda
Monticchiello, frazione di Pienza (SI)
Tutte le sere (Tranne il lunedì) alle 21:30
Ingresso 11 euro – info 0578 755118
www.teatropovero.it
Aperta la Trattoria del Bronzone
Maria Paola Forlani