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Asmae Dachan. L’odore della morte, il profumo di un figlio – Parte 2 
Dal mio viaggio in Siria. Dall'altra parte del mare...
(Foto di archivio, scattata lo scorso anno ad Aleppo)
(Foto di archivio, scattata lo scorso anno ad Aleppo) 
19 Luglio 2014
 

Lo sguardo dolce, la voce pacata, la gestualità composta, come di chi non abbia mai conosciuto la sofferenza e che nasconde invece un dolore che non può essere consolato. Abu Dawud lo incontro una sera, quando finisce di lavorare. Delle attività economiche che aveva gli resta solo una piccola bottega: i bombardamenti gli hanno portato via tutto, ma non la dignità e l’altruismo. Prima e dopo il lavoro si occupa di sfollati e bisognosi. La corrente non c’è, parliamo di fronte alla luce prodotta da un piccolo generatore, che però illumina bene. Posso guardarlo in viso mentre parla. Non lo interrompo mai, non ho neppure bisogno di fargli domande: è conciso, ma mentre lo ascolto riesco a vedere ciò che racconta. C’è un’atmosfera irreale nell’aria. Davanti a me c’è un uomo siriano che ha passato nelle carceri di assad più di vent’anni: arrestato ancora sedicenne mentre usciva da una moschea dopo la preghiera del venerdì, ha subito torture, umiliazioni, privazioni, senza mai venire processato, né incriminato. Arrestato senza un perché, come accade spesso nella Siria della dinastia degli assad. Lo osservo e mi chiedo dove abbia trovato la forza di ricominciare a vivere, lavorare e affermarsi, sposarsi e avere una famiglia dopo tutto quello che ha subito. La detenzione ingiustificata e le torture hanno scalfito il suo corpo, ma non la sua anima. Accetta di farsi intervistare e mentre lo osservo noto una profonda cicatrice sopra il suo occhio destro. Ne noto un’altra sul braccio; mi dice che ne ha su tutto il corpo. Molti giornali queste interviste non le vogliono: “non sono equidistanti”, non danno voce all’altra parte, mi dicono. “Equidistanziatevi” voi allora, rispondo io, come se assad avesse bisogno delle mie parole per la sua propaganda. Per fortuna esiste internet e le testimonianze che ho raccolto non sono oggetto di trattativa. Io le persone continuo a guardarle negli occhi, a sedermi vicina a loro e ad ascoltare dalla loro voce ciò che sta accadendo in Siria e che nessuno vuole vedere. Allora Dio benedica internet e lo spazio libero di un blog che mi permette di dar voce a questi innocenti.

Per tutto il tempo in cui l’ho ascoltato ho scritto, cercando di cogliere ogni suo gesto, ogni espressione del suo viso; non sono riuscita a trattenere le lacrime. Mi sono messa nei suoi panni, nei panni della moglie, nei panni del suo compianto figlio Dawud, nei panni di ogni siriano rimasto in Siria a subire questo genocidio, che ha cercato di reagire e rendersi utile, che ha lottato per difendere se stesso e gli altri, per tenere alta la bandiera della libertà e della dignità che ha smosso le coscienze dei siriani dopo oltre quarant’anni di regime. Per me un giornalista dovrebbe fare anche questo, provare empatia, altrimenti il suo racconto sarebbe una cronaca sterile e distratta. La narrazione dei fatti non deve escludere la comprensione profonda del contesto, dei protagonisti. Abu Dawud trova la forza di farmi una battuta: “Non ho mai visto una giornalista che piange mentre fa un’intervista, ma forse è colpa mia, perché non avevo mai parlato con una giornalista prima d’ora”. Poi si scurisce in volto e aggiunge: “le lacrime delle haraer, donne libere – espressione usata per indicare le donne che si sono dichiarate oppositrici del regime di assad – sono ciò che più faceva male a Dawud. Il giorno in cui ha deciso di partire era appena tornato dal funerale di una famiglia uccisa dai cecchini mentre cercava di fuggire verso il confine: tre bambini e loro padre. La donna, ferita ma sopravvissuta, piangeva disperata e pregava Dio di prendere la sua anima e riportare in vita i figli. Quel giorno Dawud ha giurato che non avrebbe mai più guardato impassibile le lacrime di una donna siriana. Non ha potuto vedere le lacrime della madre…”

Quando Dawud ha deciso di unirsi all’Esercito Siriano Libero sua madre e io gli abbiamo dato il nostro ridah, la nostra benedizione. Non aveva ancora prestato il servizio militare e non aveva mai preso un’arma, ma il suo desiderio di andare a combattere per difendere i civili dalle incursioni dell’esercito di assad in città era forte. Non è mai stato un violento, non l’ho mai neppure sentito gridare. Non potevo immaginare che un giorno mio figlio sarebbe diventato un combattente. Pensavo che dopo vent’anni passati senza un motivo, senza un processo, nelle prigioni di assad, senza mai vedere la mia famiglia, subendo torture e umiliazioni, la mia vita avrebbe preso un nuovo indirizzo. Invece, dopo che hafez al assad si era preso vent’anni della mia vita, suo figlio stava per prendersi la vita del mio primogenito. Dawud è stato ucciso pochi mesi dopo il suo ingresso nell’Esl. Nel periodo in cui era stato al fronte si era occupato soprattutto di scortare i feriti e i civili verso il confine. La mattina in cui è morto mi hanno contattato subito tramite il walkie talkie. Lo abbiamo seppellito come si fa con i martiri, con tutti i suoi vestiti addosso; il suo sangue profumava di gelsomino. Un profumo che mi è rimasto sulle mani e nelle narici per giorni, che contrastava con l’odore della morte che ci circondava, di cadaveri intrappolati da settimane sotto le macerie senza che nessuno riuscisse a raggiungerli, di corpi abbandonati dai cecchini lungo le strade come esca per colpire nuove vittime, di gatti e cani morti colpiti dalle schegge. Dopo qualche tempo sono andato al fronte, nel luogo dove aveva passato gli ultimi giorni della sua vita. Volevo raccogliere i suoi effetti personali, portare a casa, soprattutto per sua madre, qualcosa che avesse indossato prima di morire, qualcosa che portasse ancora il suo odore. Forse quello è stato il momento più difficile per me: quelle erano le ultime cose di Dawud, l’ultimo passaggio su questa terra della sua breve vita. Mi hanno accolto i suoi compagni e uno di loro mi ha portato i pochi oggetti che gli appartenevano. Ho stretto subito al petto quel fagotto, ma la mia delusione è stata grande: pensando di fare una cosa giusta, i suoi amici avevano lavato tutto. Del respiro e dell’odore di mio figlio non era rimasto nulla. Mi era rimasto solo l’odore della morte, il profumo di Dawud era sparito per sempre con lui”.

 

Asmae Dachan

(da Diario di Siria, 15 luglio 2014)


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