Ironia di un’interpretazione
di Franco Patruno
Le attuali considerazioni sul mito, sia nelle scienze etnologiche che nell’antropologia culturale, devono molto all’uso che di questo termine vien fatto nella storia delle religioni: elaborazione di una forma di pensiero, distinta o opposta a quella del pensiero logico e scientifico, attraverso la quale si costruisce una spiegazione su materia sacra o religiosa ma anche sociale. Restio per natura ad immaginare un’opposizione tra una supposta fantasia in lotta perenne con la razionalità chiara e distinta di cartesiana memoria, maggiormente mi affido all’attrazione polare tra estro e logicità, all’unità profonda di quell’intuizione creativa dalla quale hanno origine la fantasia della scienza e tutte le possibili razionali esuberanze dell’arte. Forse aveva ragione Giambattista Vico nel considerare il mito come un tentativo di interpretare il mondo e gli eventi che, non evolutivamente, si succedono nella storia.
L’allegoria per immagini del rinascimento ferrarese è occasione propizia agli artisti, senza essere fuga dalla ricerca di un impianto logico della composizioni visive. Le interpretazioni iconologiche ci hanno aiutato e continuano ad aiutarci nella comprensione del “mondo” figurativo del Quattrocento e delle molteplici allusioni del primo Manierismo alla corte estense, ma non accentuerei più di tanto l’effettiva presa di coscienza “ideologica” dei pittori di quelle che, con evidente ironia, Longhi definiva “…tradizioni fantastiche, astrologiche e mitologiche…quasi un legato spirituale di Fetonte alla città cui precipitò dal cielo” (in Trasformazione del Dosso, pag. 85). Maggiormente, sempre con Longhi, è evidente che le simbologie mitologiche ereditate “dagli antichi ascendenti locali” (cioè Tura, Cossa ed Ercole de Roberti) favoriscono in Dosso “un grottesco del colore, una policromia ironica, vorticosa, che, s’intende finisce per trarre con sé, dove vuole, anche la forma” (ib., pag 85). In altri termini: chi volesse, attualizzando con teologica banalità, individuare nella pittura del rinascimento estense gnosticismi filosoficamente fondati o sincretismi cabalistici per rinvenire in essi le radici di una costante che approda alla New Age, svilirebbe teologia e pittura in considerazioni da giornalismo feriale in fatua vena apologetica. Eppure, c’è chi s’è preso pure questo compito sia in veste laica che sacerdotale. […]
I possibili significati simbolici in Dosso, da non estendersi indebitamente ad ogni frammento cromatico carico di sfavillante luminosità, sono rinvenibili, secondo una lettura “entusiasta” come quella di Cesare Brandi, negli elementi atmosferici, nella natura intelligentemente allusiva, quasi a presagire “artifizi” e squillanti accensioni dopo il “mistero” di un silenzio materico ricco di “presagi”. Il grande Longhi è refrattario a collegamenti stretti con l’Ariosto, anche per non sempre implicite polemiche con le emergenti esigenze interdisciplinari che da Warburg approdavano in Brandi, nel contesto dell’arte del Cinquecento, riteneva “di maggiore fantasia e di più subitaneo estro”. Le forzature stonano e rapinano la ricchezza della specificità di un linguaggio; ma sono tali solo quando sono tirate per il bavero del dilettantismo degli accostamenti, come in quelle tracce multidisciplinari che, soprattutto negli ambiti scolastici maggiormente semiologizzati, tentano mosaici fascinosi perché illusori e mètope senza interna continuità. Ma in una sinossi degli eventi e dei fatti di cultura che caratterizzano il “mondo” di una città in un preciso contesto storico, i rapporti si stabiliscono naturalmente: se Tiziano passa a Ferrara e lascia tangibili segni della novità pittorica, influenzati ne saranno non solo gli artisti del pennello ma pure i letterati che rendevano liete le ore alla corte estense. Ariosto non ha contorni: così suggeriva Momigliano in decenni ormai lontani. I suoi paesaggi (le foreste, il dischiudersi del Po e, più individualmente, un albero, un ramo ed anche un volto) non si conchiudono in ritratti dimostrabili ed in tracce velisticamente riconoscibili. Ogni lettore, e questo è uno dei maggiori pregi dell’Ariosto, traccia i suoi contorni agli occhi di Melissa e può rappresentarsi iconicamente la furia d’Orlando.
Per Maria Paola Forlani poi l’ideologizzazione cabalica, astrologica ed alchimistica è totalmente estranea. Provate ad immaginare chi, commosso, si trova avvolto e felicemente incorniciato all’interno di una cupola arabesca o fatto salire, in premio, nella Gerusalemme dai nuovi cieli del soffitto di Santa Sofia: lo sfavillio degli ori e l’inesausto intreccio floreale o scritturale crea un panico di gioia. Se è pittore, come la Forlani appunto, è trascinato verso la tela o la tavola e tutto rielabora per una naturale propensione a quella “paura del vuoto” che, con prezioso termine manualistico assunto dalla fisica aristotelica, chiamiamo “horror vacui”. La paura del vuoto può costante opposta a tale vuoto, quello che da Piero della Francesca approda a Mondrian, avrà il suo complesso Edipo da scontare: se il vuoto fa paura, è meglio razionalizzarlo in forme chiare e distinte, lasciando sì spazi inediti, ma più che giustificati da “perni” d’equilibrio apparentemente innocui, ma che invece regnano in quel “tutto strutturale” dove niente è lasciato al caso. Forse anche Mondrian si sarà commosso a Santa Sofia, ma con esiti espressivi diversi e indubbiamente opposti.
Straordinario che la Forlani ami la costante pierfrancescana lasciandosi andare al gotico fiorito e provi estetiche emozioni di fronte al più suprematista quadro di Malevich pur inebriandosi di Klimt e di ogni fuoriuscita di fasce cromatiche del limite angusto della cornice. A tal punto da creare un’altra cornice, quella più allusiva.
E “quadro nel quadro”. Con Tasso e l’Ariosto Maria Paola Forlani ha già fatto i conti: il suo coinvolgimento è cabalistico quando lo può essere il riferimento a un gatto bianco che, disteso su un tappeto di ceramica, lascia libero il proscenio di sopra per una sacra rappresentazione. Anche Lotto, con maggiore inquietudine teologica, insinuava il felino in prospettiva luminosa, quasi a preludere ad un evento spirituale che attraversa la giornata in un felice soggiorno con ampio sbocco oltre la soglia aperta.
Il Dosso è pastoso, rilucente: inventa un verde inusitato e smorza quelli del fondo arboreo, in una materia che ama le luci soffuse e sfumate, ma pure la fronda di cui non vedi il limite, rapita da un buio che si forma con lentezza estenuante, senza misurazione possibile. Da buona ermeneuta dal paradosso degli opposti, la Forlani inventa un Dosso tutto in superficie, sfaccettato in miriadi di contorni all’interno dei quali un fiore gioca con un rosso assolutamente non suo. Quando la vocazione plastica, che non è quella nativa ma conquistata a caro prezzo, esterna Circe misteriosamente bella ed austera, il florilegio dei panneggi a due dimensioni e il rincorrersi dei fiori meticci (liberty, gotici, arabeschi…) Si chiariscono, appunto, per opposizione. Il Dosso di Maria Paola Forlani è un omaggio ai grandi amori di una terra stoltamente orizzontale, nebbiosa oltre il “Grido” d’Antonioni, silenziosa più di ogni decantazione dannunziana. Proprio per questo genera muse non più inquietanti: anzi, gioca sul pianto per far gridare quattro torri ironiche, una facciata di Duomo come una gemma ed un campanile che, pur non finito, anticipa tutto un rinascimento. Anche quello di Dosso Dossi.