Sono quattro giorni che osservo questa foto scattata da Khaled Khatib, giovane media-attivista di Aleppo e mi interrogo sul senso che può ancora avere la vita. Nell’immagine un uomo attraversa una strada stringendo al petto un bambino morto; intorno a loro macerie e distruzione; sullo sfondo, due bambini guardano le due figure allontanarsi. Si tratta di un padre che stringe in braccio il figlio ucciso dai bombardamenti; lo tiene in verticale, come se fosse ancora vivo e potesse ricambiare quell’abbraccio di infinito amore e desolazione. Non lo tiene nella posizione in cui si tiene un bimbo addormentato o un bimbo morto… Lo stringe con entrambe le braccia, gli occhi chiusi, la guancia sulla guancia del piccolo, la bocca semi aperta, come a voler respirare l’odore del figlio fino all’ultimo istante. Sul viso un’espressione di dolore profondo, indicibile, composto ma straziante. È un uomo che sta portando il frutto della sua vita e del suo amore verso l’ultimo viaggio. Dovrà cercare per lui un sudario, o un lenzuolo, o una coperta e avvolgerlo dandogli l’eterno addio. È una foto da guardare in ginocchio, con la consapevolezza che è accaduto quattro giorni fa, sta accadendo da più di tre anni e continuerà ad accadere nella Siria dimenticata dal mondo. È accaduto che anche il 9 luglio 2014 l’esercito di assad abbia sganciato le sue bombe su un quartiere residenziale e abbia ucciso innocenti disarmati, tra cui il piccolo nella foto. Ma questo non fa notizia. Dallo scorso maggio si contano oltre 500 bambini siriani uccisi;* sono oltre 15 mila in 40 mesi. Fino a quando il mondo fingerà di non vedere?
Non è la prima volta che dalla Siria giungono immagini simili. Non è la prima volta che il dolore lacerante di un genitore che perde il figlio arriva fino a noi, tagliente e paralizzante, ma forse è proprio il sentimento che trapela da questa foto a renderla così forte, quasi un manifesto della Siria di oggi. Mi chiedo se abbia ancora un senso raccontare queste notizie, queste storie, questo dramma. Mi chiedo che significato finisca per avere la vita stessa, di fronte a tanta ingiustizia e tante atrocità. Eppure c’è una parte di me che mi suggerisce di ricercare quel senso che non trovo più proprio nella gestualità di quelle braccia strette, di quel viso appoggiato all’altro come in una carezza eterna, di quel respiro affannato. E quel senso forse si chiama amore… Quell’amore dignitoso e dolcissimo che ho conosciuto da vicino anche nel mio viaggio nella provincia di Aleppo, quando mi sono trovata davanti Abu Dawud che mi ha raccontato la sua storia di padre ferito, dell’odore della morte e del profumo di suo figlio.
Asmae Dachan
(da Diario di Siria, 13 luglio 2014)
* Fonte: Syrian Obesrvatory for Human Rights.
(continua)