Quattro anni fa, durante la coppa del mondo sudafricana scrissi un racconto ironico e a tratti nostalgico intitolato I miei mondiali, per ricordare con il sorriso sulle labbra episodi di vita scanditi dall’importante appuntamento calcistico. Era un racconto divertito e spero divertente, come oggi non sono più capace di scrivere. Mi ero detto che bastava allungare di mezza pagina I miei mondiali per inserire la fugace avventura di Brasile 2014. Non lo posso fare. Ho provato, certo, ma sono venute fuori frasi di circostanza e troppi luoghi comuni. Non posso scrivere di aver fatto le due di notte per vedere la vittoria colorata d’illusione sull’Inghilterra e di aver sofferto davanti alle batoste rimediate contro Costarica e Uruguay sotto il caldo tropicale. Non posso scrivere Prandelli è una brava persona, Balotelli uno scansafatiche, i nostri calciatori pensano soltanto alle veline e via di questo passo.
Il mio triste mondiale non ha niente a che vedere con la sconfitta d’una brutta Italia, non leniscono il dolore le parate del portiere brasiliano, le finte di Nessi e i morsi di Suarez. Il mio triste mondiale mi fa venire in mente soltanto che è il primo senza mio padre, lui che amava così tanto il Brasile e la musica brasiliana, che stava sveglio di notte per veder giocare i Carioca al ritmo di samba, che in Messico 70 faceva quasi il tifo per loro da quanto erano bravi.
Il primo ricordo calcistico di mio padre – questa cosa l’ho già detta – avrò avuto cinque anni, mondiale d’Inghilterra vissuto come un sogno ma per l’Italia fu un incubo peggiore del Brasile, lui che bestemmia e se la prende con un dentista. L’ho capito soltanto dopo chi era il dentista. Maledetta Corea. Non ho passato un mondiale senza vederlo tifare, ché nel 1978 comprò persino il televisore a colori per vedere le partite in Argentina, lui che non era malato di calcio, ma i campionati mondiali non li avrebbe mai persi, come non poteva mancare all’appello quando giocava la sua Inter, dai tempi del mago Helenio Herrera.
Il mio triste mondiale è la tua mancanza che ormai scandisce la mia vita, il tuo sorriso buono che non può tornare, le parole che non ti ho detto, i sogni che tormentano le mie notti, il senso d’inutile abbandono di fronte alla scrittura. Il mio mondiale brasiliano è una tristezza di fondo che non può passare, una saudade disperata, l’incapacità di pescare nei ricordi la nostalgia confusa tra una vecchia canzone di Jannacci e una macchietta di Bracardi. Le nuvole del Messico, colorate d’illusione, si fondono in un tramonto giallo oro che dipinge la notte brasiliana. Sono le nuvole del tempo perduto che tingono di grigio un orizzonte lontano, ricordano vecchi errori, catturano emozioni da non dimenticare. Ecco perché quel racconto non lo posso cambiare. Non sarebbe più lo stesso. Avrebbe un sapore nuovo. Saprebbe di rimpianto.
Gordiano Lupi