Testimonianza di un volontario della Protezione Civile Libera di Aleppo
Da oltre otto mesi sulla città di Aleppo, capitale economica della Siria, si è scatenata l’offensiva dell’aviazione militare che getta ogni giorno decine di barili Tnt sulle zone residenziali. Ad intervenire in soccorso delle vittime ci sono giovani soccorritori. Abbiamo incontrato Moetaz,* 26 anni, padre di due bimbi.
– Può spiegarci cos’è la Protezione Civile Libera?
La Protezione Civile in Siria è un Corpo dello Stato e quindi risponde agli ordini del regime, che ha vietato gli interventi nelle zone bombardate. Per questo molti di noi hanno abbandonato il loro ruolo ufficiale e abbiamo dato vita alla Protezione Civile Libera (PCL), che invece è al servizio di tutti i siriani. Con noi si sono uniti centinaia di volontari, anche senza alcuna preparazione. Ciò che ha sempre mosso i nostri comportamenti è il desiderio di aiutare gli altri, di tentare di salvare quante più vite umane possibile. Molti di noi non hanno vissuto i bombardamenti di Hama nell’82 e non avevano mai assistito a scene tanto cruente: ad Aleppo e nella altre città siriane nessuno avrebbe immaginato di vedere corpi dilaniati nelle strade, teste e arti staccati, pozze di sangue, bambini esanimi, case piegate su se stesse. Spesso, quando ci sono bombardamenti, la gente si raggruppa nel luogo dove è caduto l’ordigno per cercare di aiutare i superstiti e allora gli aerei colpiscono nuovamente, compiendo stragi anche tra i soccorritori.
– Chi sono i volontari che si sono uniti a voi?
Prima dell’inizio delle violenze ognuno esercitava una professione diversa: studente, carrozziere, panettiere, cartolaio; chi faceva volontariato collaborava con la Mezza Luna Rossa o prestava la sua opera presso altre associazioni. La maggior parte di loro non aveva alcuna esperienza in riferimento alle situazioni di emergenza. Sono diventati soccorritori e in certi casi hanno persino ricoperto il ruolo di infermieri a causa dell’assenza di personale e soprattutto a causa della continua e drammatica emergenza. Purtroppo la mancanza di competenze e conoscenze specifiche a volte ha fatto sì che si commettessero degli errori: estrarre una persona incastrata tra le macerie in un clima di fretta, di shock, di ansia significa tentare di salvarle la vita prima che ci siano ulteriori crolli, ma farlo senza tenere conto delle tecniche di immobilizzazione, idratazione, ossigenazione può significare aggravare i danni. Per questo abbiamo preso a organizzare, nei limiti del possibile, corsi di formazione e addestramento.
– Oltre ai rischi del mestiere, che pericoli corrono i giovani della PCL?
Bisogna precisare che essendoci il divieto per la Protezione Civile di intervenire nelle zone liberate i volontari che lo fanno sono considerati a tutti gli effetti disertori da parte del regime, quindi sono ricercati. In più da circa un anno ci si sono messi anche i terroristi di Daesh (altrimenti indicato come Isis: Islamic State of Syria and Iraq), che prendono di mira infermieri, medici, soccorritori e operatori dell’informazione e li uccidono a sangue freddo tacciandoli di tradimento. Se ti impegni per salvare vite umane sei visto come un criminale. Ma il vero crimine è che ogni giorno, oltre alle decine di vittime civili, ci sono volontari che rimangono feriti e capita anche che perdano la vita durante le operazioni di soccorso, Va ricordato che tranne qualche escavatrice, non abbiamo mezzi e spesso lavoriamo a mani nude, contraendo anche malattie.
– Come reagiscono i volontari, specie quelli senza una precedente esperienza, di fronte alle scene che si presentano ai loro occhi?
I traumi psicologici che si subiscono nell’assistere a certe scene non possono essere descritti a parole. Molti giovani stanno male per giorni e giorni dopo essere intervenuti sul luogo di un’esplosione e in questo quadro di continua emergenza non abbiamo né il tempo né il modo di organizzare sedute con psicologi o motivatori. Insieme a noi operano anche ragazzi di 14-15 anni, il cui altruismo e coraggio a volte fa da scuola anche a noi adulti veterani, ma è capitato spesso che alcuni di loro crollassero emotivamente dopo aver preso parte alle operazioni di estrazione di superstiti o vittime a seguito dell’esplosione di un barile.
– C’è un episodio in particolare che l’ha colpita più di altri?
Ogni singola storia è una sintesi completa di tutto il dramma della Siria. Al di là delle statistiche, dei numeri degli interventi e della tipologia ci siamo noi, le persone, i figli di questo paese che stanno subendo un massacro da oltre tre anni. Qualche settimana fa ho assistito ad una scena che forse più di altre mi ha colpito e che vorrei raccontare: era una delle interminabili mattinate scandite dal suono dei barili nel cuore di Aleppo. Ci siamo divisi in squadre e ogni squadra si è diretta in una zona. Quando sono finalmente cessate le esplosioni ho voluto fare un giro di ricognizione per aver un quadro generale della situazione. Con pochi mezzi e la luce che svaniva era diventata una corsa disperata contro il tempo. Addentrandomi tra le macerie dell’ultima zona colpita, da dove avevano già estratto 16 corpi, ho trovato uno dei nostri volontari piegato su qualcosa, con i guanti e il casco gettati a terra; mi sono avvicinato con la torcia ed ho visto che sotto di lui c’era un ragazzino, rimasto per metà seppellito dalle macerie, il corpo praticamente tagliato a metà. L’ho chiamato e, senza voltarsi, mi ha detto che il bambino gli aveva chiesto di non lasciarlo da solo e che lui non si sarebbe mosso di lì senza portarlo via. Gli aveva tenuto la mano per tutto il tempo, per non lasciarlo morire lì, al buio. È rimasto in quella posizione per più di 8 ore, finché non siamo riusciti a recuperare quel che restava del corpo del bambino. Il volontario ha voluto avvolgere lui stesso la piccola vittima nel sudario e lo ha portato in braccio fino all’ospedale da campo, attendendo che venisse qualcuno a riconoscerlo. Nel crollo erano morte anche sua madre e le sue tre sorelle. Il padre ha dovuto riconoscere in quei corpi maciullati tutta la sua famiglia. A quel punto si poteva procedere con la tumulazione. Il nostro volontario ha preso in braccio il bimbo e lo ha portato fino al luogo della sepoltura, un campo non lontano dall’ospedale. Lo ha calato sotto terra facendolo scivolare lentamente dalle sue braccia. A fine giornata abbiamo contato oltre cinquanta vittime e oltre 200 tra feriti e mutilati. Poi, per diversi giorni, non è più venuto. Il trauma è stato forte, più forte della sua volontà e della sua resistenza emotiva, ma non più forte del suo gran cuore. Passato un po’ di tempo è tornato e mi ha detto che avrebbe tenuto la mano di tutti i bambini che ne avrebbero ancora avuto bisogno. Ecco, questa storia è la nostra routine quotidiana.
Asmae Dachan
(da Diario di Siria, 5 luglio 2014)
* Nome di fantasia per ragioni di sicurezza.