Territorio ricco di storia, oltre che di bellezze naturali, il Casentino conserva ancora oggi molti capolavori d’arte medievale e rinascimentale che attestano i suoi stretti legami con Firenze, in virtù dei floridi commerci e dell’appartenenza dell’intera regione alla vasta diocesi di Fiesole. Attorno a questo territorio, il direttore degli Uffizi Antonio Natali ha voluto presentare la quattordicesima mostra della collana “Le città degli Uffizi”, per portare all’attenzione del pubblico lo straordinario patrimonio d’arte locale, dialogando con i capolavori conservati nelle Gallerie degli Uffizi.
L’esposizione, curata da Daniela Parenti e da Sara Ragazzini, (catalogo Maschietto Editore), ha sede al Teatro degli Antei a Pratovecchio Stia, e prende spunto dalla figura mitica del pittore Iacopo di Landino, che consolidata tradizione vuole originario di Pratovecchio e che Giorgio Vasari identificava con quel Iacopo del Cosentino, contemporaneo di Giotto, di cui la Galleria degli Uffizi possiede l’unica opera firmata, il piccolo trittico donato da Guido Cagnola al museo nel 1947.
Sebbene nel territorio non sussistono dipinti del maestro, la mostra cerca di documentare attraverso opere come la tavola della Madonna col Bambino di Romena, del Maestro di Varlungo, il polittico murale di Taddeo Gaddi di Poppi raffigurante la Madonna col Bambino e Santi, il Graduale miniato verso il 1330-1340, l’esistenza di una fervente vita artistica locale che ebbe inizio già alla fine del XIII secolo e proseguì nella seconda metà del Trecento con il trittico datato 1375 nella chiesa di Pagliericcio del Maestro di Barberino e le opere di Giovanni del Biondo, anch’egli di probabile origine casentinese, seppure formatosi a Firenze nella bottega di Nando di Cione.
Agli anni a cavallo fra la fine del’300 e l’inizio del’400 risalgono in questo stesso territorio numerose testimonianze di pittura tardogotica riconducibili a maestri affascinanti e sofisticati come il Maestro della Madonna Straus, il Maestro di Borgo alla Collina – recentemente identificato con Scolaio di Giovanni – Giovanni Toscani, pittori che portano in Casentino le tendenze più aggiornate ed alla moda della pittura fiorentina dell’epoca rappresentate da Lorenzo Monaco e Gherardo Starnina.
I polittici di Bicci di Lorenzo presenti in varie chiese del territorio, fra i quali è in mostra quello commissionato nel 1414 dal conte Neri della casata dei Guidi, signore di Porciano, e il finto trittico di Poppiena dipinto da Giovanni da Ponte, che per la chiesa delle monache camaldolesi di Pratovecchio aveva eseguito una pala d’altare oggi alla National Gallery a Londra, ci testimoniano l’esistenza di rapporti privilegiati fra committenti del territorio e alcune botteghe fiorentine, concludendo, così, gli albori del Rinascimento.
Il Trittico di Jacopo da Cosentino, proveniente dagli Uffizi era, certamente, destinato alla devozione privata date le dimensioni ridotte (39,2 x 42,2) e la decorazione a finto marmo del verso degli sportelli e del pannello centrale. La raffigurazione, a fianco della Vergine in trono col Bambino, di san Giovanni Battista, patrono di Firenze, potrebbe essere un indizio della provenienza fiorentina del committente; il Battista reca un cartiglio iscritto col passo evangelico EGO/VOX/MAN/TIS/IN DE/SERTO (Giovanni, 1,23).
Dall’altro lato del trono è rappresentato un santo monaco con corta barba e capelli scuri, vestito di bianco, da identificare verosimilmente col cistercense San Bernardo di Chiaravalle, seppure l’abito bianco fosse proprio dell’ordine camaldolese e del suo fondatore san Romualdo. Dubbia è anche l’identificazione delle due giovani sante effigiate nell’anta a sinistra; la veste rossa e la pisside che reca in mano indurrebbero a riconoscere nella giovane a destra Maria Maddalena, piuttosto che santa Lucia come in genere suggerito, mentre ignota rimane l’identità della santa con la testa velata, recante un ramo di palma che la connota come martire. Nella parte superiore dello sportello è raffigurato san Francesco che riceve le stigmate davanti all’aspra montagna della Verna, scena posta in posizione speculare rispetto alla Crocifissione di Cristo raffigurata sull’altra anta del trittico, rendendo esplicito il parallelismo fra il Salvatore e il santo assisiate, proclamato ‘alter Christus’ in virtù del miracolo delle Stigmate.
L’altarolo, assai raffinato nella fattura è ben conservato, grazie ad un restauro effettuato agli inizi degli anni Novanta, è l’unica opera firmata da Jacopo del Cosentino, che appone il suo nome in basso al pannello centrale: IACOBUS DE CASENTINO FECIT.
Il piccolo trittico palesa i caratteri stilistici peculiari di Jacopo, basati su modelli giotteschi, rivisitati tuttavia attraverso un’indole più narrativa e descrittiva; ma ancora problematica risulta la cronologia delle opere del maestro. Il Trittico degli Uffizi è generalmente considerato più antico delle opere note e databile al terzo decennio del Trecento; in esso rimane vivo, nella struttura del trono intorno al quale si dispongono gli angeli, il ricordo della Maestà oggi agli Uffizi di Giotto, cui rimanda anche la saldezza plastica del corpo della Vergine. La solennità giottesca è tuttavia stemperata dalla vivace gestualità del Bambino che afferra il velo della madre mentre volge lo sguardo alla Crocefissione, prefigurata dal corallo che Gesù porta al collo, rosso come il sangue che verserà per la salvezza degli uomini. Denunciano un afflato più gotico, forse sotto la spinta di suggestioni della pittura senese, i corpi graziosamente incurvati dei quattro santi e dei dolenti, l’artificiosa profilatura mistilinea della pedana marmorea sul quale poggia il trono, la delicata gamma cromatica dove prevalgano i toni rosati; il manto del Bambino, percorso da striature d’oro, perpetra una tradizione che in ambito fiorentino diventa piuttosto rara dopo la fine del XIII secolo. Straordinariamente viva e animata appare la scena con le stigmate di san Francesco, dove il brullo paesaggio casentinese è arricchito da insetti, uccelli, conigli: nell’alto della roccia si apre la grotta dove Francesco riposava e pregava, resa col realismo di chi, probabilmente, quella grotta l’aveva vista davvero.
Maria Paola Forlani