Anche Cristo pianse
nell’orto dei Getsemani
Buongiorno, mezza/notte.
Torno a casa.
Il giorno si è stancato di me:
come potevo io – di lui?
“È un appartamento molto luminoso, vedete?... Molto riservato… aspettate che apriamo le serrande… doppio ingresso, uno con la porta blindata e l’altro indipendente, ci si arriva direttamente in cucina, …comodamente e, senza attraversare la casa, potrete riporre la spesa. Ecco, di qua la terrazza, anch’essa protetta da sguardi indiscreti, vedete?”
Si snodano immagini scure, rumori di passi e l’appartamento dove si consumerà l’agonia di Aldo Moro è segno dei tempi durante i quali la notte ha ceduto alla luce del giorno. Il gatto nero è abbagliato da un raggio di sole, forte, troppo forte, è quasi folgorato. È il carcere dell’anima quello che ci presenta il maestro Bellocchio, impresso negli sguardi sfuggenti dei protagonisti, negli occhi di Chiara, nel volto segnato del prigioniero, nel rosso che torna ossessivo dallo spioncino come occhio sulla coscienza di tutti coloro che sognarono “una notte da soldati”.
“Ma quale soldato? Non ho fatto neanche il servizio militare!”
Anche Chiara…
che inventa bugie alla zia, ai colleghi, al lavoro,
che va al camposanto il giorno della commemorazione dei morti,
che aiuta la parente anziana a scendere le scalette,
che vedremo ridere una volta sola, la sera dell’ultimo dell’anno, appena affittata la casa quando il cielo si riempie della variegata luce dei fuochi d’artificio. “Buongiorno mezzanotte”.
Era bella la luce del sole.
Stavo bene sotto i suoi raggi.
Ma il mattino non mi ha voluto più
E così, buonanotte giorno!
Gli elicotteri sorvolavano il cielo di Roma, bassi, insistenti, tanti; subito dopo, la notizia del rapimento del presidente Moro e un’Italia che resta senza fiato, attonita, spaesata, impaurita. Chiara accenna ad un sorriso di vittoria ma ha le labbra contratte in un ghigno, vicino a lei un bambino bellissimo, paffuto, nato alla vita, il figlio che la vicina di casa ha lasciato “giusto per un attimo”. Il silenzio non è detto scrive un poeta,* il silenzio è uno spazio nel quale le immagini nei loro contrasti si sommano, si denudano, si intrecciano, si scompongono passando rapidamente dal volto del bambino al rosso del sangue sull’asfalto grigio di Via Fani.
È come una sospensione, una strozzatura, una contrazione dolorosa ma aspettata, un punto ormai messo senza poter girar pagina. Una ferita che forse non rimarginerà. E a sfogliare questo dolore, l’arte di Marco Bellocchio che non prenderà posizioni ideologiche ma entrerà sia nell’animo dei rapitori che nell’agonia dolorosa del presidente Moro e con umanità pietosa ne trascriverà sospiri, lacrime, parole, silenzi e affanni. È sempre notte nell’appartamento e la stanza del presidente Moro è una gabbia nella gabbia.
Non come quella dei canarini che i rapitori con cura portano al sole e ritirano dal freddo della sera. È una stanza piccola, rossa di bandiera e stella a cinque punte, dove entrare per i pasti, per portare la biancheria pulita e fare qualche scatto rapido, foto da far avere ai giornali e fogli su fogli. Il Presidente vuole scrivere ai compagni di partito… alla moglie, ai figli, ai nipoti… al papa… vuole scrivere, non possono averlo dimenticato, non possono non aiutarlo.
“C’è una donna fra voi?”
“L’avevo capito da come sono piegati i calzini.”
Scorrono i telegiornali e si alternano dibattiti, condanne, decisioni. Liberate Moro senza condizioni. È ottima e coraggiosa la scelta del regista nel presentarci la seduta spiritica dei politici presieduta da Andreotti durante la quale l’evocato spirito guida gioca, compare, scompare, e mette a dura prova il circolo dei partecipanti. Si burla di loro e della loro incapacità?
Forse.
Il maestro Bellocchio non è solo il bravissimo regista del film, è autore anche del testo. Le due cose insieme indirizzerebbero a una visione parziale dei fatti. Ma Bellocchio non è un politico e, con umanità e com-passione… si trasferisce in quel dolore blindato, nelle rughe del prigioniero, nel parlare concitato degli ordini e dei contrordini, nella disperazione muta di Claudia che taglia minuziosamente l’insalata per gli uccellini con una caparbietà maniacale, nelle lettere di Moro ai suoi cari: bacia per me tutti, uno per uno, carezzali come fossero le mie mani… sentimi con te e tienimi stretto, nel sarò il martire che vi condannerà e nel sogno di Claudia.
Moro è libero e cammina per le strade di Roma ravviandosi i capelli.
Posso guardare, vero,
l’oriente che si tinge di rosso?
Le colline hanno dei modi allora
che dilatano il cuore.
Tu non sei così bella, mezzanotte.
Io ho scelto il giorno,
ma ti prego, prendi una bambina
che lui ha mandato via.
Emily Dickinson
Patrizia Garofalo
* Angelo Andreotti, Il silenzio non è detto, Mimesis (Accademia del silenzio2014)