La mostra “Puro, Semplice e Naturale, nell’Arte a Firenze tra Cinque e Seicento”, alla Galleria degli Uffizi, aperta fino al 2 novembre, a cura di Alessandra Giannotti e Claudio Pizzoruso (catalogo Giunti), intende sovvertire il luogo comune di una cultura civica fiorentina passatista, rivelando la forza di novità presente anche in quella linea dell’arte cittadina che, tra Quattro e Seicento, restò fedele alla tradizione dei propri modelli.
Giorgio Vasari esaltava la «Maniera moderna» come superamento della tradizione quattrocentesca, ormai arcaica, e collocava Leonardo, Michelangelo e Raffaello al centro di questo periodo di «somma perfezione»; a loro, ma con un diverso grado di convinzione, egli affiancava Fra’ Bartolomeo e Andrea del Sarto, disegnatori esemplari, meticolosi imitatori della natura, ideatori di opere devote. Vasari, artista della sontuosa corte del duca Cosimo I de’ Medici, era però lontano da questi maestri, sostenitori di una tradizione “pura, semplice e naturale”, e interpreti di una tendenza che a lui appariva superata e senza futuro.
Andrea del Sarto e Fra’ Bartolomeo restarono punti di riferimento negli anni della magnificenza medicea, ma soprattutto ridiventarono attuali alla fine del Cinquecento – tanto da soppiantare il “vasariano” – per rispondere alle esigenze dottrinali sancite dal Concilio di Trento. Santi di Tito e Jacopo da Empoli si impegnarono allora in un rilievo di quei maestri, animato da un vigore, e l’operazione venne riproposta a metà Seicento, con diverso senso di modernità, da Lorenzo Lippi e Antonio Novelli, come alternativa alla dilagante figurazione barocca.
La mostra strutturata in cinque sezioni cronologiche, e quattro tematiche – in cui i dipinti e le sculture sono allestiti, a titolo esemplificativo, privilegiando valori di coesione stilistica e iconografica entro un’ampia forbice cronologica – presenta una vera e propria rassegna di capolavori. In apertura, l’esposizione accosta le Annunciazioni di Andrea del Sarto, Santi di Tito e Jacopo da Empoli, offrendo un colpo d’occhio sui tratti di cultura che legano i maestri della «Maniera moderna» e la compagine di artisti operanti a Firenze tra istanze di riforma e primo naturalismo seicentesco.
Nella Firenze del primo Cinquecento il registro di nobile chiarezza ispirato al pensiero di Fra’ Girolamo Savonarola era un linguaggio condiviso dagli artisti a lui vicini come Lorenzo di Credi e Fra’ Bartolomeo, Ridolfo del Ghirlandaio e i della Robbia.
Alcuni di loro facevano capo alla “Scuola di San Marc”, punto di riferimento della comunità degli artisti che proponevano immagini di una religiosità essenziale e austera, comprensibile anche ai semplici e agli illetterati. Con loro e con Andrea del Sarto, maestro insuperabile del disegno dal naturale, si fondarono quei principi della “fiorentinità” che resteranno validi per oltre un secolo e mezzo: uno stile fatto di parole usuali, ordinate secondo una chiara sintassi, che modella con plastica evidenza figure e cose.
I maestri (Andrea della Robbia e Andrea del Sarto, Fra’ Bartolomeo e Andrea Sansovino), eredi del Quattrocento, sono al tempo stesso fondatori di un’“ordinata maniera” moderna, radicatasi con Franciabigio, Bugiardini, Sogliani. Superate le generazioni di Bronzino e Alessandro Allori, custodi di una vena naturalistica attenta alla verità ottica delle cose, si approda al “Seicento contromano”, dove sono riuniti artisti che hanno rivelato quest’identità “purista” fiorentina, traendone impulso per tracciare una linea “diversa” dal caravaggismo e dal barocco: da Santi di Tito a Jacopo da Empoli, da Ottavio Vannini a Lorenzo Lippi, grande interprete di un moderno naturalismo.
Dopo una sala dedicata al disegno dal vero, che spazia da Andrea del Sarto e Pontormo alla metà del Seicento, gli stessi artisti si ripresentano accostati per temi: “pitture di cose”, dove si ergono a protagonisti gli oggetti domestici. Straordinarie le Pale dell’Accademia della Crusca (alcune dei centocinquanta dipinti eseguiti su supporti lignei che emulano nella forma la parte terminale dell’attrezzo usato dal fornaio, e che decorano ancora la sede dell’Accademia della Crusca). In ognuna è un’immagine accompagnata da un nome: il soprannome di un accademico, e un motto a lui riferito. Immagine, nome e motto fanno tutti riferimento alla tematica granaria, secondo una scelta che rimanda alla titolazione dell’Accademia.
La Pala di Baldassare Suarez detto il “Mantenuto”, opera di Lorenzo Lippi (logo della mostra), rappresenta una piccola forma di ricotta accolta in un piatto di porcellana a decori azzurri; un pezzetto di pane – al centro della ricotta – ne accoglie il liquido in eccesso, permettendone la conservazione...
Al momento del suo ingresso nell’Accademia del Disegno (1648), Carlo Dolci decise di dipingere un ritratto di Beato Angelico ed è, per questo, che è stata affidata a lui l’apertura dell’ultima sezione, dedicata alla raffigurazione degli eventi sacri (“tradizione del sacro”) presentati con nobile semplicità. Entrambi modelli di incorruttibili immagini devote, Carlo Dolci e Andrea della Robbia rappresentano perfettamente – al pari di Andrea del Sarto e Santi di Tito – gli estremi del percorso cronologico e formale del tardo Quattrocento fino alla metà del Seicento.
La mostra chiude con uno spettacolare trittico di busti del Redentore, di Torrigiani (riscoperto in Gran Bretagna), di Caccini (un miracoloso recupero conservativo) e di Novelli (dal Metropolitan di New York). La solenne e monumentale parete finale illustra la lunga persistenza dell’uso – coltivato a Firenze più che altrove – dei busti del Salvatore, rappresentazione straordinariamente veridica dell’eminenza corporea di Cristo nello spazio quotidiano della fede.
Maria Paola Forlani