Mi scuso se intervengo, senza attendere risposte e nemmeno intendendo avviare una serie di repliche e controrepliche sempre più sottili e magari aspre, su un argomento che a me interessa moltissimo. A chi pure interessa, legga, chi non è interessato/a cestini e basta.
Vado per cenni molto riassuntivi e me ne scuso.
Gli umanisti del XV secolo erano convinti che l'italiano potesse dare vita alla terza classicità, dopo e in gara con quelle latina e greca e si davano molto da fare per dimostrare che l'italiano era più ricco di vocaboli delle due grandi lingue morte. Volevano anche dimostrare che la letteratura italiana era superiore a quelle due venerate: ma l'italiano era privo sia di poema epico, che di tragedia, onde la spasmodica attesa della fattura dei due generi letterari principi: ne seppe qualcosa Torquato Tasso, che ne impazzì, e cercò di fare con la Gerusalemme conquistata il poema epico italiano ecc.: vale la stessa cosa per la tragedia.
Nel corso di questa lunga gara i grammatici fissarono anche le regole della lingua, in modo molto preciso. La più famosa, che si studia ancora a scuola letteralmente, ma incompleta, è quella delle concordanze e dice: “in italiano nelle concordanze prevale il maschile”. Immutabile più del dogma della Santissima Trinità, ma incompleta: infatti i suddetti grammatici, che erano seri studiosi abituati a giustificare le loro affermazioni dissero: “prevale il maschile, come genere più nobile”. Sicché non si tratta di una affermazione egualitaria, come già direbbe: “prevale”, non particolarmente democratico.
Ci si chiederà: ma perché le donne non protestarono? perché erano per lo più analfabete ed escluse dal gioco.
Oggi chi si occupa di linguistica usa dire che si serve del “maschile non marcato come neutro universale”: questa formula elegante e un po' oscura significa che chi dice “uomo”, senza far riferimento (marcare) alcuno agli attributi che lo definirebbero maschio, intende usare appunto il maschile come neutro universale, dunque un maschile che comprende anche il femminile: infatti -soggiungono- siccome siamo uguali, quando dico uomo, intendo anche donna. Potrei replicare: se siamo uguali, io dico donna intendendo anche uomo, e si vedrebbe che non siamo uguali.
Più recentemente nelle varie lingue si è andata facendo strada la proposta del “linguaggio inclusivo”, cioè, se voglio dire uomo in generale posso dire “Umanità” oppure “specie umana” o “gli uomini e le donne”. I ragazzi e le ragazze, gli e le studenti, il e la presidente ecc. ecc.
Ma certe parole in italiano non ci sono: solo le lingue morte non possono avere neologismi: ma se diciamo e scriviamo cliccare, dribblare, perché non possiamo dire avvocata, che del resto la Chiesa usa miliardi di volte per Maria, avvocata nostra, corredentrice ecc. ecc.? Ministra che è in Foscolo, poeta elegantissimo?
È un po' noioso, ma non si ribalta in mezzo secolo scarso un uso di quattro nella lingua e di migliaia di anni nel diritto. Bisogna avere un po' di pazienza e poi si vedrà come decidere. Nelle lingue l'uso -come è noto- è la regola principe. Per questo mi servo sempre del linguaggio inclusivo, sperando di diffonderne l'uso.
Si riconoscono talora ad alcune donne attributi maschili, ad esempio della Thatcher si disse che era una donna con le palle, a me nella discussione di tesi di laurea capitò nel lontanissimo 1945 che il relatore, il chiar.mo prof. Mario Apollonio, ordinario di Letteratura italiana giudicasse la mia tesi un “lavoro che dimostra un ingegno davvero virile”, naturalmente con l'intenzione di farmi il massimo dei complimenti. Quando mi fu data la parola, dato che non avevo ricevuto osservazioni né domande dissi solo: “Ringrazio, ma non vorrei laurearmi per errore di persona, io sono una donna”, suscitando quella nota reazione di imbarazzo, per cui ciascuno guarda nel suo piatto o foglio, come se avessi emesso un clamoroso rutto durante un pranzo di gala. Il correlatore che era mio amico mi disse poi che Apollonio era furibondo: “È proprio una donna anche lei: isterica!” e così il cerchio si chiuse. Il maschio resta misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono.
La vendetta è che ogniquavolta sento il diffusissimo motto: “Porca Eva”, soggiungo subito “Scemo Adamo” e se qualcuno dice che Adamo diede il nome a tutte le cose, replico -come dice la Scrittura- che ad Eva no, perché non era una cosa e il nome se lo diede da sola. Evviva!
Lidia Menapace