Si dice che non ci siano storie in cui sia più facile immedesimarsi, che le storie d'amore. Ciò implica che è forse proprio attraverso questo genere di storie che è più facile mettersi nei panni dei personaggi più marginali e diversi.
Gabrielle – Un amore fuori dal coro è un film canadese, di una giovane regista, Louise Archambault, che si svolge in un centro di assistenza per persone affette da ritardo mentale, in particolare dalla cosiddetta sindrome di Williams. Ed è al suo interno che si sviluppa la storia d’amore di Gabrielle, una ragazza poco più che ventenne, per un altro degli ospiti, un ragazzo più o meno suo coetaneo.
È facile partecipare delle speranze, degli scoramenti, dei momenti di grande felicità, dei conflitti che caratterizzano questa storia d’amore come ogni altra. Tuttavia la regista non attenua, non dissimula la particolarità di questo amore.
Anzi: l’individuazione dei comportamenti del tutto singolari dei due protagonisti – ma anche dei gesti, delle espressioni – è l’aspetto più riuscito del film, il momento in cui la descrizione si fa più sottile, variegata e convincente.
Entrambi i ragazzi hanno, o hanno avuto, un lavoro e delle relazioni al di fuori del centro. Fanno parte di un coro che dovrà esibirsi sulla pubblica piazza nell'ambito di un festival musicale molto importante. Eppure, fatalmente, la loro “diversità” li pone in un ideale mondo a parte all'interno della società. E in questa specie di limbo, i sentimenti sembrano assumere colorazioni più limpide e intense. La felicità sconfina facilmente nell'estasi; e la tristezza nella disperazione più irrimediabile.
Forse perché sono consapevoli che l’amore per loro è una possibilità più remota che nelle vite cosiddette normali.
Il centro è gestito secondo principi “illuminati”; intende favorire l’integrazione degli ospiti; non usa certo metodi violenti, e nemmeno drasticamente repressivi.
Eppure la sensualità un po’ sregolata, seppure del tutto innocua, dei due innamorati ravviva nei loro familiari, prima ancora che nel personale del centro, un sospetto, una diffidenza mai vinta del tutto nei confronti dei portatori di handicap; induce quei familiari a un eccesso di protezione. (Di qui, in Gabrielle un senso di oppressione che diventa subito insopportabile; e nel ragazzo, una costante mortificazione).
Va detto che Gabrielle è, a suo modo, una commedia; e dunque la storia d’amore va a buon fine. Ma il momento idilliaco finale, molto bello, non dissolve davvero il dolore della marginalità. E una drammatica felicità è forse il tono emotivo che più caratterizza il film.
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 17 giugno 2014)