Venezia accoglie la mostra antologica su Carlo Saraceni ospitato nei mesi scorsi a Roma a Palazzo Venezia e ora in un’edizione rinnovata alle Gallerie dell’Accademia fino al 29 giugno. Uno sbarco, quello nella città lagunare, che suona un po’ come ritorno dell’artista seicentesco in terra patria dopo il lungo soggiorno nella città dei Papi.
Il Saraceni è stato il primo e unico interprete veneziano del Caravaggio: sua è stata la capacità di saper fondere la lezione del Merisi con quella della grande tradizione cinquecentesca veneta legata al vivido cromatismo intriso di luce.
Stando alle fonti documentarie, i due artisti si conoscevano davvero e si frequentavano: nel novembre del 1606 Carlo Saraceni e Orazio Borgianni, accusati di essere i mandanti dell’attentato a Giuseppe Baglione, vengono definiti in un’aula di tribunale “aderenti al Caravaggio”. Il Saraceni addirittura eseguì il dipinto del Transito della Vergine per la chiesa di Santa Maria della Scala in sostituzione della celebre Morte della Vergine di Caravaggio, rifiutata perché giudicata priva di “decoro”. Il “Veneziano”, com’era noto all’epoca Saraceni a Roma, giunse nella città vaticana a vent’anni e qui rimase per un ventennio. L’artista rientrò in laguna chiamato dalla Serenissima per compiere un telero per la Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale e destinato a sostituire un dipinto tintorettesco che era danneggiato. L’opera Il Doge Dandolo incita le crociate fu ideata e forse impostata dal pittore veneziano, ma fu compiuta, dopo la morte, dal francese Jean Le Clerc, suo allievo negli ultimi anni romani e trasferitosi a Venezia.
La mostra che comprende circa 60 opere, prende avvio dalla produzione di piccoli raffinati dipinti su rame, dove la novità sta nella predominanza data al paesaggio rispetto al racconto mitologico e biblico, frutto della profonda meditazione sui modelli dei pittori nordici. Tre dedicati alla storia di Dedalo ed Icaro, tre ad altri miti tratti dalle Metamorfosi, posti in parallelo e a pendant, il sole oscurato e la luce così particolare è l’immagine dell’eclisse che fu osservata nell’ottobre 1605 in tutta l’Europa meridionale, e quindi si unisce nel quadro lo studio del fenomeno astronomico con la luce unica che esso provoca. I due protagonisti nella prima scena uniti prima in volo ripetono un disegno di Giulio Romano (artista che torna più volte nel percorso saraceniano), mentre si affacciano da un’alta rupe per dare il senso dello sbalzo, l’uno indicando attenzione al pericolo del sole in ombra lunare, l’altro manifestando ipnotica attrazione, nell’aria che prevale appena mossa verso il basso da una nube. Proveniente da Madrid è il piccolo dipinto Venere e Marte.
Questo piccolo rame di enorme ricchezza figurativa rappresenta l’amore adultero tra Venere, dea del desiderio e dell’amore nonché moglie di Vulcano, dio del fuoco e della metallurgica, e Marte dio della guerra e della violenza, così come narra il poeta Ovidio nelle sue Metamorfosi (IV, 167-169). All’interno dell’immensa, ricca e articolata casa di Vulcano, di cui s’intravede la fucina in fondo alla loggia di ordine toscano con colonne e volte, la coppia esibisce – nei termini del linguaggio corporeo dell’epoca – la propria passione amorosa sull’abbagliante biancore delle lenzuola del letto. Sono presenti cinque amorini che tuttavia non si curano della scena e sono concentrati in altre occupazioni: due sembrano impegnati a ordinare la biancheria e a raccogliere quella che gli amanti hanno gettato per terra spogliandosi, mentre altri tre si divertono con l’armatura di metallo moderna. Il putto più grande con le ali, di certo Cupido, guarda la propria immagine riflessa nello scudo lucente mentre urina nell’elmo, plateale espressione di irriverenza nei confronti della mitologia più che del classicismo. Il 1012 è la data tradizionale della fondazione dell’ordine Camaldolese. Il Riposo nella fuga in Egitto di Saraceni commissionato da Olimpia Aldovrandini per l’Eremo Tuscolano, sede dei Camaldolesi nei dintorni di Frascati, è una delle più importanti opere eseguite per quell’istituzione eremitica, e rientra in pieno in un tipo di committenza specifico, collegato all’ordine. La scena biblica (Matteo, 2: 13 – 15) è ambientata in un rigoglioso paesaggio. Al centro, la Vergine ed il Bambino sono seduti, in sosta durante il viaggio, sotto una palma. Tre angeli a sinistra, uno dei quali regge uno spartito musicale, cantano per allietare la Sacra Famiglia. A destra San Giuseppe trattiene l’asino ed allo stesso tempo indica alla Vergine ed al Bambino un quarto angelo che raccoglie datteri dalla palma.
Nel secondo decennio del Seicento la pittura della corrente caravaggesca rappresentò un richiamo irresistibile per adornare gli spazi privati delle dimore e quelli più visibili di cappelle, dove scene di crudo realismo e ritratti non idealizzati immersi in una luce nuova andavano a decorare altari e perfino monumenti funebri. Carlo Saraceni si era distinto sulla scena romana per la colta abilità compositiva fatta di contaminazioni tra lessico del Merisi, l’attraente esuberanza del colorito veneto e la finitezza fiamminga e forse, più di altri suoi connazionali giunti a Roma in cerca di fortuna, ottenne prestigiosi incarichi in un breve lasso temporale.
La più grande impresa fu il Fregio ad affresco che si sviluppa in alto sulle quattro pareti della Sala Regia nel palazzo Quirinale, il quale fu completato in appena un anno, come attestano i pagamenti. Un’impresa immane che vide al lavoro tre grandi artisti – Agostino Tassi, Giovanni Lanfranco e Carlo Saraceni – e decine e decine di pittori per la realizzazione di ben 482 mq di pitture murali che costituiscono il grande fregio voluto da Paolo V Borghese.
Mentre in quel vivace laboratorio che fu Santa Maria dell’Anima, le cappelle di San Benno e san Lamberto sono decorate con due importanti pale d’altare eseguite dal veneziano Carlo Saraceni tra il 1617 e il 1618. Le due tele costituiscono le prove esemplari del caravaggismo del pittore, che mostra più che altrove la propria adesione ai modelli del Merisi, aggiornati attraverso un linguaggio maturato nella Roma di quegli anni.
Maria Paola Forlani