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Angelo Andreotti. POLAROID (1999)/ Pudore
Alberto Burri, 1915 – 1995
Alberto Burri, 1915 – 1995 
28 Maggio 2014
 

L’orizzonte è il fallimento di ogni viaggio”

 

Pudore

 

Lui avanza in quella camera dove la penombra attutisce le forme, le attende per azzittirle. Qualche passo poi si gira verso l’infermiera e accenna con la testa a un ringraziamento che vuole anche accomiatarla.

Lei ha lo stesso sguardo sorridente che lo ha accompagnato fin dentro la stanza, quando esce socchiudendo la porta.

Lui torna indietro, perché l’idea di una porta socchiusa non gli è mai piaciuta.

Aperta o chiusa. Adesso chiusa.

La stanza ha una finestra di fronte alla porta, il letto è sulla parete di destra, al suo lato c’è un comodino in metallo, grigio.

Sulla sponda del letto c’è una vestaglia. L’ha sempre avuta, glielo ha sempre vista dentro l’armadio, a casa, ma il senso di quella vestaglia in tutti questi anni lo comprende solo ora.

Stava aspettando.

Sul comodino c’è un bicchiere coperto da un fazzoletto ben piegato, con un sottile pizzo, inamidato. Anche questo l’ha sempre visto, e nemmeno si ricorda dove, se in un cassetto, oppure… Non importa, anche il fazzoletto qui, in questo spazio e questo tempo, ha raggiunto il suo senso.

Lui non guarda altro, se non un piccolo armadietto sulla parete a fianco della porta. A dir la verità posa lo sguardo anche su una macchia nel muro. L’impronta di un crocefisso rimosso.

C’è silenzio. Aria ferma. La stanza, così spoglia, sembra inghiottire i suoi rumori: quelli dei suoi passi, lenti attenti, quelli dei suoi vestiti, quelli del suo respiro, quelli della sua angoscia che si scartoccia come un involucro per mostrare poco alla volta una certa inquietudine.

La sua presenza ha un suono, risuona nell’aria ferma e silenziosa. L’ascolta. E sente anche qualcos’altro, forse il suono di un’assenza. Lo attirerebbe, se non volesse per ora restare vicino a se stesso. Lo attirerà.

Sul braccio ha ancora l’impermeabile piegato. Lo afferra con l’altra mano e lo appoggia sullo schienale di una delle due sedie, perché nella stanza ci sono anche queste, messe per riposare l’attesa. Fa per sedersi sull’altra, ma poi ci ripensa.

 

Appena entrato aveva allungato lo sguardo su quel volto affossato nel cuscino. Scavato, assente. Il tempo di vederlo addormentare, e subito si era rivolto alla giovane e minuta infermiera che già, se dovesse cercare, non saprebbe riconoscere.

Ora potrebbe guardarlo nuovamente quel volto, ma nessun segno, un sospiro, un fruscìo, una sensazione, gli ha detto che qualcosa è cambiato. Eppure quello è il centro della sua attenzione, attorno al quale gira, indugia, rimandando di attimo in attimo l’incontro, fino a contarli tutti, quegli attimi e a sentire quasi la pressione di quelli che stanno arrivando.

A vederlo adesso, in apparenza disattento, quasi impassibile e forse pure spazientito, sembra quasi per caso in quella stanza, a condividere il suo tempo con un estraneo. Ma quello non è un estraneo, e il tempo non lo possono più condividere. Così si porta verso la finestra. Le mani in tasca. La giacca aperta. La cravatta allentata. Il colletto della camicia sbottonato. Gli occhi a spiare il giardino dalle fessure della tapparella.

Tutto è immobile, fuori. Le foglie, l’erba, l’aria. Anche ciò che si muove, lo fa come se tutto fosse fermo. Tutto è fermo allora. Non c’è tempo, non c’è passato e futuro, ma un lungo, inesauribile presente sospeso, perennemente sospeso. Questo pensa. E lo subisce.

La giornata è luminosa, brillante. Infastidisce, quasi.

Ferisce lo sguardo che comunque lui continua a lasciare fuori, su niente di preciso, a girovagare tra gli alberi, i cespugli, i passeri, tra i suoi pensieri che anche si adagiano su niente, o perlomeno ci provano, vorrebbero, come per ammazzare il tempo.

Intorno è silenzio, dentro la stanza. Ogni tanto spinge avanti il bacino cosicché i tacchi si staccano da terra, poi li riappoggia, li stacca nuovamente, e questo oscillare, questo ondulare del suo corpo un poco lo appaga, lo coccola, lo soddisfa. E comunque ondeggia nell’aria un’armonia che l’aria non traduce in suoni, ma in leggere variazioni luminose che lui non vede, tutte oltre le sue spalle.

Strano contrasto: penombra nel corpo, e fresco; luce negli occhi, e caldo. Un brivido, in mezzo.

 

Non lo guarda, ma lo sente. Dev’essere rimasto così come l’ha visto quando è entrato. Sorpreso? A dir la verità nessuno prima gli ha dato l’illusione che qualcosa potesse cambiare su quel letto.

Da quanto tempo è così? Nessuno glielo ha saputo dire. Da ieri, certo. Sì, ma ieri quando?... verso sera… Sì, ma… sta dormendo? Pressappoco. Si sveglierà? Bè…

Cioè: a un certo punto aveva gli occhi aperti, poi a un certo altro punto li ha avuti chiusi. E in mezzo? Cosa è successo in mezzo.

È ovvio che queste cose mica le ha chieste. Le ha pensate, ha pensato di chiederle. Lui lo sa che non solo è inverosimile pretendere le risposte, ma anche proporre queste domande. Perché potrebbe sentirsi dire, sì, ma tu dov’eri mentre… e questo non potrebbe sopportarlo. Ma lo pensa, ed è devastante.

Lancia uno sguardo al letto.

Spazio assoluto.

Luogo di allontanamenti: l’amore, il sonno, il sogno, la morte.

E allora lui insiste senza ancora guardare quel volto, a martoriarsi col pensiero che gli occhi li ha chiusi dentro una stanza senza un viso senza un altro paio d’occhi… senza qualcosa che lo ha visto vedere… ma vedere cosa?! Cosa si vede?

 

Il respiro è regolare, anche se un po’ affannato.

Bisognerebbe però chiamarlo rantolo, più che respiro.

Bisognerebbe decidersi a farlo, prima o poi. Ma occorre forza. Adesso è presto, occorre tempo anche per questo. E di tempo ce n’è. E allora è soltanto come se dell’aria passasse da un pertugio, da una passaggio stretto, molto stretto, attraverso il quale bisogna che si faccia piccola, molto piccola, inesistente, quasi un soffio, faticato, pavido.

Adesso si decide.

Prende la sedie, la porta a fianco del letto, si siede. E si ascolta. E ascoltandosi lo guarda. Forse non è proprio un guardare, ma un far scivolare lo sguardo su quel volto, nudo.

Non c’è più spazio in quel volto, e nessun fremere a indicare un’idea, un’emozione. Quel volto è inabitabile, è nudo. Talmente nudo da imbarazzare.

E infatti distoglie lo sguardo, per lasciarlo sfiorare dal suono di quel respiro che adesso pare riempire la stanza, ma non è che si sia amplificato, è solo l’unica cosa che lì sta muovendo l’aria, e lo fa sentire ingombrante, invadente.

Vorrebbe parlare, e lo fa, e quasi si vergogna perché nulla può ascoltarlo, se non al di là della porta, se almeno ci fosse qualcuno. E comunque parla piano, perché se ci fosse qualcuno non gli piacerebbe. Parla allora a voce sufficientemente bassa per ascoltarsi e farsi ascoltare appena dal sonno nudo di quel volto che si manca, che continua a mancarsi.

Quello che dice forse non è importante. L’importanza è che dica, e che abbia l’illusione di raggiungerlo là, poco prima che giri l’angolo. Ma là in fondo è buio, e non si sa se l’angolo l’ha già girato.

E in ogni caso racconta, non si sa mai, anche se a dir la verità non è tanto la necessità di comunicare a farlo parlare, quanto di farsi comunicare dal silenzio liberato da quel volto. Di sentirsi dire delle cose. Di riempirsi del vocìo di una storia che adesso, già lo sento, ha bisogno per darsi di una voce che non viene, non verrà.

Vorrebbe insomma ascoltarlo quell’uomo, vorrebbe che rispondesse a quelle domande che ora neppure sa, ma che col tempo arriveranno a ricordargli il ritardo cronico di un’attenzione mai prestata, di un abbraccio rimasto nell’intenzione retrodatata di un rimpianto.

Ma se questo è il tempo del dolore, non è ancora il tempo per la sofferenza, quella che poi lo sveglierà di notte, con lo sguardo fisso nel buio a trattenere il respiro che non rubi l’aria a quel ricordo, che non lo smuova, che non lo soffi via. Perciò ora si limita a dare spazio alle fitte tutte fisiche di un pensiero spezzato, impensabile per intero, inconcludente ora, troppo ampio per star dentro al tempo che vorrebbe pensarlo.

E allora racconta, ma non è un raccontare. È un dire, e gli dice cose che solo così può dirgli, che mai gli ha detto, mai gli avrebbe detto, e che non gli direbbe se non avesse visto la nudità di quel volto, e sentito quel pudore nel proprio sguardo.

Gli parla, ecco: gli parla.

Semplicemente.

Gli parla senza più avarizia. Senza cercare le parole. Lasciando che queste parole liberamente versino nel significato quel di più che possiedono.

Quel volto intanto è immobile. Preme sul guanciale un peso che non gli appartiene. Sarà l’assenza di espressione a dargli la sensazione della nudità, e lui distoglie ancora lo sguardo, così, per pudore, e lo fa quasi con fastidio verso se stesso: così tanta arrendevolezza non si regge, così tanta leggerezza schiaccia.

Sfinisce.

La vita è scandalo. Pensa.

 

Inerme. Disarmato. Quel volto insiste a ferirgli lo sguardo adesso appoggiato sulla coperta, per poi scivolare giù, verso il pavimento, e poi tormentare le scarpe, e poi di nuovo su verso la tapparella, che fende la penombra con poche piatte linee di luce.

Potrà riempirsi il vuoto? O dovrà subire l’impotenza del suo stare inutilmente lì, a colmare una distanza ormai spaccata in lontananza? Potrà ricordare tutto, ma proprio tutto anche se in parte, solo in parte? Potrà ricordare quello che già non trattiene? Che già tracima dal suo tempo, dal suo restare e continuare, dal suo perdurare, dal suo sopravvivere che fin da subito, lo sente, reclama spazio per sé, per ciò che verrà?

Pronuncia il nome, come per provarlo ancora una volta, e il nome incide la sua lingua, la sua gola, le sue labbra, incide e brucia.

Gli sfiora la fronte, ma è come violare una nudità, sbirciare dal buco della serratura, da una porta socchiusa, da una tenda male accostata, e allora sembra che quel volto si ritragga come per pudore dalla sua mano calda, palpitante, pronta per altre carezze.

Non si muove, eppure si ritrae.

C’è silenzio.

E l’accorgersi di questo silenzio lo spaventa.

È sovrastante.

È un silenzio ascoltato, udito.

Fin dove può spingersi la parola? Ecco, vorrebbe che almeno la sua raggiungesse quel silenzio.

Trovarne una così potente non può, e se anche la trovasse non avrebbe fiato sufficiente per spingerla fin là.

Le parole sono di chi resta. Restano, e se vanno non vanno mai oltre il tempo. Le parole parlano di eterno, per esempio, ma non lo sanno, lo intuiscono, come un presagio.

Le parole scandiscono il tempo del tempo, ne afferrano gli istanti, e li vestono di significati. Si fanno ascoltare da chi le argina tra un attimo e un altro, nella pausa di un silenzio.

Ma se quel volto è nudo, è nudo proprio perché non ha parole per sé, né può essere vestito da una descrizione: non si descrive ciò che è impronunciabile. Quel volto è nudo, e basta. E la parola non può coprirlo, scaldarlo. Però copre e scalda lo sguardo imbarazzato da quella nudità, e con pudore lo veste di un senso.

Dove si ritorna? Pensa.

E pensa anche a se stesso che spesso ha nascosto pensieri appena sotto l’incresparsi di un’espressione, pensieri che resteranno per sempre lì, a far da spessore al suo sguardo che si spinge un po’ più in là, non visto. Ecco, una volta chiuso, chiusi anche loro, quei pensieri, a seppellirsi di silenzi, inascoltati per sempre, per sempre inutili, forse.

Cosa si lascia? Pensa. Cosa resta?

Non lo sa, non sa cosa di quell’uomo resterà. Cosa le sue mani stanno trattenendo appena oltre il limite da lui invalicabile. Ma soprattutto quali prese le sue mani invece mancheranno, cosa scivolerà giù, nell’immemore.

Non lo sa. Come non ha idea di cosa sarà capace di portare in salvo, e cosa invece risulterà irrimediabilmente perduto, al punto addirittura di non saperlo neppure.

Un inventario, ci vorrebbe un inventario per barrare le voci di ciò che è rimasto, ed evidenziare le cose andate, smarrite, andate per sempre.

Se ci fosse un inventario resterebbero almeno le parole da riempire con l’immaginazione, con la fantasia, con la tenerezza di un racconto costruito a bassa voce, sul filo dell’assenza. E invece niente, niente a dirgli ecco, vedi, questo, proprio questo, bè, è andato. No, nessun indizio invece.

 

A mani vuote.

Si resta a mani vuote. Con le dita indolenzite. E poche cose portate in salvo sull’orlo di quel precipizio. Il resto giù, tutto il resto là in fondo, ad accatastarsi forse senz’ordine, così, alla rinfusa. Inservibile.

Ciò che resta, resta tra le palpebre quando, abbassate, permettono la proiezione di poche sequenze, di scarne immagini, a volte mute, comunque imprevedibili perché improvvisamente l’operatore aggiunge e taglia fotogrammi, sfuma colori, allontana, alza e abbassa l’audio.

Per questo si alza, e lancia un ultimo sguardo su quel volto nudo, socchiude gli occhi, e le palpebre scendono come una coperta, per un attimo scaldano quel tremore, per una frazione di tempo annullano il tempo, e con pudore sbirciano in quella nudità.

 

Angelo Andreotti


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