L’infinita bellezza del calcio. L’infinita crudeltà del calcio. O della malasorte eletta a destino.
Quarant’anni fa fu un tiro da 30 metri di uno stopper teutonico, Hans-Georg Katsche Schwarzenbeck – uno shot della disperazione – al 120′ a regalare il pareggio alla propria squadra, il Bayern Monaco, che sotto 1-0 per una magistrale punizione di Luis Aragonés si ritrovò in una insperata seconda partita di finale della fascinosa Coppa dei Campioni. Trofeo che s’aggiudicò per la prima di tre volte consecutive. Allora non c’erano i calci di rigore. L’Atletico Madrid, dopo aver cullato il sogno, dovette soccombere nella ripetizione del match ai poderosi bavaresi, molti dei quali di lì a poco avrebbero conquistato il Mondiale ai danni dell’Olanda.
Quattro decadi dopo l’Atletico Madrid si è ripresentato all’ultimo atto della più ambita e prestigiosa competizione europea per club (anche se adesso si chiama Champions League). E si è presentato da fresco campione di Spagna, dopo ben diciotto anni di astinenza, e da sfavorito, poiché di fronte ci sono loro, i galacticos, i cugini del Real Madrid, i ricchi. Che potrebbero fare i poveri colchoneros, i materassai, contro le camisetas blancas, le merengues, quelli della tradizione, della casa monarchica da sempre, i predestinati alla decima?
Eppure gli obreros dell’Atletico vanno in vantaggio con un colpo di testa dell’aereo e sapiente uruguagio Diego Godín (fenomenale difensore, degno della straordinaria tradizione del suo Paese) e in vantaggio ci restano fino al 90′. L’arbitro concede cinque minuti di recupero. Troppi? Già i colchoneros pregustano il riscatto, la realizzazione del sogno, la conquista della vetta – sei solo a un metro dalla cima, dalla fine delle fatiche, dopodiché sotto il tuo sguardo si spalancheranno orizzonti mai veduti, la gloria eterna… –, la sconfitta del maledetto sortilegio. Già nel cuore dell’allenatore Simeone urla selvaggia la gioia e arringa il popolo dei suoi assiepato sugli spalti… La coppa è nostra, la coppa è nostra, gridano all’unisono mente e cuore… Quando, su un intervento a vuoto della difesa, da un calcio fermo, sbuca nel misterioso varco creatosi l’imperiale testa di Sergio Ramos che incorna con un gesto tecnico-atletico di magnificenza senza pari. È perfetto lo stacco del difensore-goleador, di splendida eleganza la torsione. È il terzo minuto di recupero. Ben oltre il 90′. Ne mancavano due, due soli, alla fine della sofferenza che prelude alla sterminata allegria della vittoria, due soli al riscatto dal ricatto esistenziale della disfatta che si ripete, due soli all’imperitura memoria, agli immarcescibili frutti del paradiso. Ramos ha schiacciato una palla perfetta nell’angolino laddove neppure i quasi due metri di talento del giovanissimo portero belga Thibaut Nicolas Marc Courtois (nome e naso aristocratici) avrebbero mai potuto giungere. Tutto da rifare. Invero, tutto perduto. Pareggio cercato con furiosa ostinazione dai madridisti e, dopo tanti attacchi vani, stenti e sterili, trovato. Quasi un ristabilimento delle distanze sociali.
Poi… il tracollo dell’Atleti. Il Real ne farà prima del 120′ altri tre coi suoi preziosissimi e superbi per classe e bravura pedatori. I cugini in bianco si meritano infine la Coppa. Così come l’avrebbero meritata fino a quel fatale 3′ di recupero i poveri colchoneros. Per questi ultimi lacrime, sudore e sangue. Senza esito, senza soddisfazione. Un umiliante 1-4 dopo l’1-0 che stava per consegnarli alla storia, dalla civetta della maledizione al volo dell’aquila… Il nobile inopinato perdente e scalzato dal trono, che vi torna trionfante; il vilain che invece esce dal campo con una tristezza infinita e rimette i panni di colui che deve lavorare da luce a luce macerandosi poi nelle tenebre di un sonno senza sogni né speranze. Non per lui sono i riflettori di fama fortuna felicità!
Eppure nel tragico destino dei colchoneros c’è una grandezza senza pari, immane. Come quella di Ettore sconfitto da Achille. Gli eroi si annidano soprattutto fra coloro che subiscono il fatale colpo di lancia, più che fra coloro che lo vibrano dando la morte. Nell’albo d’oro rifulgerà con merito il nome del Real Madrid, ma la compassione, nel senso più alto della parola, sarà tutta per gli sventurati calciatori dell’Atletico Madrid. Un po’ come l’Ungheria del 1954 o l’Olanda del 1974, l’anno di Schawarzenbeck, quel biondo lanzichenecco che segnò un gol disperato e definitivo, senza saperlo, un gol che avrebbe tracciato un destino e la storia di una partita da giocare nella nostalgica Lisbona quarant’anni dopo. Gli dei sapevano già quel che sarebbe accaduto… Gli eroi devono morire, perché il ricordo sia eterno.
Alberto Figliolia