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Scrivere la musica: Fabrizio De André
25 Maggio 2014
 

La letteratura è stata il nonno che Fabrizio non ha mai avuto. Non c'era nessuno a raccontargli le favole, così lui le leggeva

Dori Ghezzi

 

Lo scopo di questa rubrica è quello di fare una piccola raccolta di testi letterari in cui sia presente la musica nelle sue diverse declinazioni; è appunto una raccolta di autori che hanno scritto di musica con peculiare cognizione, che sia la musica come tramite dell'amore in Proust o come musica infernale in Hoffmann. Con questo articolo invece si tenterà un rovesciamento di prospettiva, non più scrittori che scrivono di musica ma di testi scritti per la musica che si ergono al grado di letteratura. E, per il cantautorato italiano, da dove partire se non da De André?

Già nell'antica Grecia i poeti cantavano e la poesia era divenuta lirica, alle Muse si chiedeva di cantare; così anche al tempo dei trovatori provenzali che cantavano le loro chansons. Così parlare dell'autore genovese in questi termini è come sfondare una porta aperta; come non pensare alle sue liriche come a delle vere e proprie poesie, capaci di mantenere il loro grado sublime anche senza la musica di accompagnamento. Non è fuori luogo considerare De André un poeta, né come una delle voci autoriali più importanti dell'Italia del secondo Novecento. Tutto il corso della sua produzione si erge a chiaro simbolo di un livello che è sempre stato altissimo, un'ispirazione che non è mai mancata e che ha segnato gli ascoltatori italiani contribuendo in maniera imponente (senza esagerazioni) all'educazione di numerose generazioni.

La musica di De André ha sempre intrattenuto evidenti contatti con la letteratura vera e propria: basti pensare a “Città Vecchia” («Se tu penserai, se giudicherai da buon borghese li condannerai a centomila anni più le spese ma se capirai, se li cercherai fino in fondo se non sono gigli sono pur sempre figli, vittime di questo mondo») composta da un testo che fa da contraltare alla omonima poesia di Umberto Saba, al tema della guerra trasposto in chiave lirica («La polvere, il sangue, le mosche, l'odore per strada e fra i campi la gente che muore e tu, tu la chiami guerra e non sai cos'è e tu, tu la chiami guerra e non ti spieghi perché» Terzo Intermezzo), agli ambigui testi dedicati alle rivoluzioni studentesche del '68 e ai loro giovani partecipanti («Lottavano così come si gioca i cuccioli del maggio, era normale loro avevano il tempo anche per la galera, ad aspettarli fuori rimaneva, la stessa rabbia la stessa primavera» Prologo) fino all'unione estetica tra musica e letteratura con “Non al denaro, non all'amore, né al cielo”, liberamente ispirato alla Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, da cui pesca il mood attualizzandolo, con le sue storie di vite misere e spazzate via, una su tutte quella del suonatore Jones «che fu sorpreso dai suoi novant'anni e con la vita avrebbe ancora giocato. Lui che offrì la faccia al vento la gola al vino e mai un pensiero né all'amore né al denaro né al cielo».

Poi c'è quella che, nella mia mente, è una delle canzoni più belle di De André, una di quelle in cui anche la continua ripetizione degli ascolti, il testo conservato fermamente nella memoria, non permette di afferrare mai in pieno il senso più intimo. Parlo de “La domenica delle salme”, quarta traccia dell'album Le nuvole, uscito nel 1990. Un disco pieno, stracolmo di concetti e di storie, in cui confluiscono gli spunti più diversi, dall'ispirazione del titolo di stampo aristofaneo, alle tirate attuali di “Don Raffaè”, il recitativo delle popolane in “Le Nuvole”, l'agghiacciante (e tuttora attuale) lamento di “Ottocento”, giusto per dire alcuni di questi. Ma “La domenica delle salme” vive di una vita propria, di un soffio che la fa lievitare verso l'alto, verso l'irraggiungibile e l'ineffabile, una delle pagine più tenebrose e alte della poesia De André. Per cercare di carpire l'afflato di questa poesia è necessario inquadrarla nel periodo in cui è stata scritta, quegli anni sul finire degli '80 in cui la voglia di protesta si era pian piano sopita, la vita era vissuta come un alito di vento che spira sui corpi senza infastidirli, il mercato comincia a dettare veramente legge e le ideologie si spengono in una agonia neanche troppo lenta.

La melodia è lieve e minimale, composta da un arpeggiare veloce di chitarra su cui si stende la voce profonda di De André, calma, in forte dialettica con la pesantezza dei quadri che dipinge in una successione di rappresentazioni. Uno dei fattori principali che guida il testo è un fatto storico caduto proprio in quegli anni, la caduta del muro di Berlino, principio di una normalizzazione vissuta come principio di un miglioramento, incipit di un'era migliore e di una felice speranza giovanile «la domenica delle salme, si sentiva cantare, quant'è bella giovinezza, non vogliamo più invecchiare» e poi ancora «il gas esilarante presidiava le strade». La società borghese occidentale ha vinto la sua sfida, convincendo i polacchi che una vita misera al servizio dei potenti sarà comunque meglio di quella precedente («i polacchi rifacevano il trucco alle troie di regime»). È in questo scenario apocalittico e triste che muore ogni forma di resistenza e di dissenso delle voci della società e, con la nascita della nuova società, nasce anche la Nuova Accademia a cui subito si adeguano gli intellettuali («Voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio, coi pianoforti a tracolla e vestiti da Pinocchi, voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti, per l'Amazzonia e per la pecunia, nei palastilisti e dai padri maristi, voi avevate voci potenti, lingue allenate a battere il tamburo, voi avevate voci potenti, adatte per il vaffanculo») con l'uso dei tempi imperfetti ad evocare azioni ripetute sì, ma nel passato. Con questi presupposti prende vita il temibile quarto reich, un nuovo dominio dittatoriale, preparato dalla stessa borghesia che poi, come sempre, è convinta della sua onestà (forse l'enigmatico verso «le regine del tua culpa affollavano i parrucchieri»).

Il video di questa canzone, in cui appare De André, è emblematico circa il significato storico che assume questa canzone; nel video si vede una televisione in cui scorrono le immagini del secolo che andava verso la sua fine, parate naziste, il bombardamento di Dresda, ballerine, maiali, una donna che trova una foto di un carbonaro e una pistola.

La grandezza della canzone sta nel fatto che non si presenta come una rassegna storica ma come una linea del tempo che traccia il percorso fatto dalla storia fino a quel momento, un percorso che si conclude con la morte dell'Utopia («la domenica delle Salme, gli addetti alla nostalgia, accompagnarono tra i flauti il cadavere di Utopia»). Altrettanto misterioso il finale, quegli ultimi versi in cui sembra che, tra le macerie e tra lo stravolgimento degli individui, resterà sempre, anche se ridotta ad un frinire di cicale (leggero ma certamente fastidioso), un «coro di vibrante protesta».

 

Matteo Moca

 

 

Molto utile mi è stato il libro di Cesare Romana, Smisurata preghiera. Sulla cattiva strada con Fabrizio De André (Arcana 2005), soprattutto per la trascrizione dei dialoghi avuti con De André.


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