Postfazione
Nell’intimo di un uomo di luce c’è luce
e illumina tutto il mondo.
Vangelo gnostico di Tomaso
Come tenendo per mano la luce
… (affinché non si perda senz’ombra) … il sole s’innalza
allo zenit
(A. Andreotti)
Ho sfogliato e riletto più volte le pagine sparse di Angelo, con quella cura dovuta agli stati aurorali di un messaggio suo sempre imprevedibile. Nell’attesa poi, di vederle diventare un libro. Nella semplicità e malia che quel fascio di carte sudate e levigate (sempre, se sue) possono offrirci. Nelle quali sempre si nasconde un enigma, lirico e filosofico insieme. Bello è aspettarlo, incuranti dell’inquietante brontolio, dinanzi o dietro di te, di una Pizia delfica fintamente interessata alle tue domande. Pagine queste, segno di sconfinata amicizia, cui il poeta mi ha concesso di accedere, nel tempo seminale del loro farsi e scomporsi. Nel dubbio, nel travaglio della lima, dell’intarsio, della segatura di ciò che non vorrebbe essere soffiato via lasciando il posto ad altre parole più fortunate.
Perché più scabre, essenziali, recise nella brughiera sterminata di quelle sconfitte. Ma che si sacrificano malvolentieri, in nome della ricerca possibile della frase o del vocabolo perfetti. Quale parola, del resto, aspira a congedarsi, e una volta per tutte, dal suo autore? Ogni parola apparsa d’intuito, teme di essere scartata, non vorrebbe mai privarsi dei balenii luminosi che, incauti e sacrileghi, le abbiamo troppo rapidamente concesso. Come non riconoscere loro l’ambizione di discendere dalle stelle e poi di risalire come fumi di novembre verso i cieli opachi?
Questi fogli allo stato nascente, nel miracolo del lavoro della sua industriosa bottega mentale o nell’errare per pianure ferraresi, anche se Angelo non mi avesse informato del titolo, già ben mi avrebbero indicato la via diretta al senso. Le righe già si alternavano agli spazi bianchi, con quella consueta eleganza visiva, agli occhi e al tatto, così connaturata ormai alla sua arte. Egli sa offrirmi da anni ormai sempre un’ascesi del mio abitare la terra. Quel rigore timbrico delle parole somiglianti a passi, mi regala ad ogni nuovo appuntamento il godimento di leggere ad alta voce i suoi versi. O di ascoltarli pronunciati da lui. In una commistione sonora, tra pause e accenti; in una ritmica che pare “riordinare il mondo”, che ci riafferra sul crinale, quando ormai tutto sembrava incresparsi.
Nell’istante in cui ti sembrava di perdere il filo, nel sussultare di linee in procinto di congedarsi da ogni comprensione. Finalmente, o da prima, nella nostalgia mai struggente di averle capite, là dove il filo del discorso ti ricaccia indietro a ripensarne le trame. In un alternarsi melodico, non più in vacua baruffa, tra sentire orale e presentire veggente di quella voce anomala chiamata scrittura. Che le dita, ogni volta, paiono voler imbalsamare nella teca delle pagine, gelose e ribelli dinanzi all’effimero dei suoni. Per poi rivelarci di ognuna di esse, scorsa e meditata, il proprio dischiudersi a nuove intenzioni. La pagina si fa maestra dell’eterno ricominciare, diventa essa stessa metafora di metamorfosi e fissità, di gioia eccitata e di malinconia: questa volta, nell’amplesso irrevocabile tra la luce e l’ombra.
Ti trovi così a risillabare ogni sequenza in discendente cammino, perché la poesia vera è fatica e vertigine. Angelo ti dimostra, qui e altrove, quanto essa si fosse nascosta in te; quanto sia necessario che il poeta ci affidi non alla sua, ma alla nostra libera maieutica. Per ritrovare la via verso una finestra socchiusa. Nel compito di spalancarla al sole, oppure, di suggellare le persiane per spiare a tentoni le verità che, nel buio, ti si chiede di indovinare. Quando abbassi gli occhi e le parole già luminose di Angelo, partorite in quel biancore, evadono leste, accompagnandoti nella giornata imminente, nella notte appena congedatasi che lui ti consiglia, voce fuori campo discreta, di portarti appresso. Per tornare là dove la scrittura ti era apparsa ormai un raffermo pane di ieri. Per non perderti nell’illusione di un’eternità ormai mondata di ogni punto nero. Accogliere l’ombra, anzi portarla a testa alta al dio di turno, anche nell’aldilà presunto, quale più autentico e onesto passaporto testimonierebbe di una vita che non tema di finire al macero in quel lucore de-ombrato?
Dell’ombra la luce è un canto d’amore. Tra Eros e Psyche e tra chi sennò? Tra chi vorrebbe sapere e chi è tenace nel preservare della prima sostanza l’arcano. Per rendere l’amplesso sempre un sogno d’amore. Per ricominciarlo daccapo, senza più le domande scomode che turbano quell’annebbiamento la cui complicità rallegra gli amanti. È un duetto, questa compatta raccolta: talora quasi un duello, nell’inesausto ansimante susseguirsi di mormorii, fiati, respiri non clandestini bensì cosmici. Solari e lunari. Ogni mattino tace della sera designata a venire, eppure, il crepuscolo le è vitale: anche la luce cerca il sonno, come la parola il silenzio. Anche gli amanti non sanno mai se stanno aspettando insieme il chiarore, o se il tacere delle loro reciproche ombre li ha già allontanati.
Poi vagheggiando una liberazione dalla gemella, la prima presenza del giorno si avvede di “inciampare” nel proprio alter ego. Nell’ombra necessaria, sorella e madre delle cose nascenti.
Poiché questa è, senza posa, comunque “una forma di luce”. Seppur fioca e inattingibile. È nell’alcova del buio che ogni volta la ragione può risvegliarsi, nella sapienza di chi sa tener “fermo il chiarore sull’uscio”. L’ombra sa di essere cosa, esperienza, emozione diversa dal buio, dalla tenebra, dall’oscurità fitta del nulla. Si scrolla le pesantezze dei suoi finti sinonimi e guarda alle notti terse ritrovate, ammiccando alla gemella dal roseo o perlaceo sguardo.
Nel susseguirsi di questa sua Ode, dove il pulsare della vita, nella risonanza lucreziana, a ogni voltar di pagina ci annuncia che folle è pretendere di dimorare soltanto nel dissidio eterno, Angelo ci guida con sapienza remota nel labirinto: ci ristora con la sopraggiunta quiete della radura e con l’ardua arte della danza dall’una all’altra entità. In noi celata, al di fuori dei nostri cortili domestici incalzante ogni minuto.
L’essere include il divenire, e, a sua volta, l’andare induce alla sosta: questo il grande messaggio del poeta. L’ombra non sarebbe senza luce e, lei, divinità androgina, nessuna forma, corpo, sagoma potrebbe mai coniare.
“Soffiar via l’oscuro” è perizia che non ci è data se non hai imparato ad alitar altrove anche la luce. Senza più farne un trofeo o un rosario. Ci conviene accettarla tale eterna legge, nel ritmo naturale tra sazietà e inesausto bisogno, tra cibo e indigenza, tra lo svuotarsi la terra di se stessa e lo scoprire quanto i demoni siano fecondi quando nulla ci chiedono in cambio. Sono piuttosto una semenza verso la luce, da ammonire se troppo si pavoneggia del suo fulgore, cui l’ombra è benigna consigliera: hanno casa le tentazioni ora del tutto, ora del nulla piuttosto nelle semioscurità, nei controluce dell’esistenza, delle ombre cinesi capaci di far fiorire le pareti.
L’occhio divino della grande luce
dato non mi sarà più vedere.
Sofocle, Antigone
E se Heidegger, filosofo amato dal poeta, ci offre “radure schiarite” verdeggianti, anche ci racconta di Antigone, la fanciulla gettata in un tetro sepolcro. La sua storia ci aiuta di più a comprendere l’evento dell’essere; ci consente di scoprire che il nostro esistere non è mai annidato nell’ordine delle vicende del giorno (nella sola luce), ma nondimeno nell’ineffabile notte.
Così, il poeta – l’àugure delle sue prime parole, da me lette nel dono antesignano – attraversa il nostro esistere al nostro posto. Ci rende meno sicuri, sia quando ci offra una sfera lucente, sia quando una pietra nera ci si pari dinanzi. Dirada Angelo l’effimera presunzione di aver in tasca quel tutto fosforescente; ci invita all’inafferrabile indugiare di chi non saprà/potrà pronunciarsi, una volta per tutte, sulla verità assoluta dell’una o dell’altra sostanza vitale. E sarà gioia scoprire che aderire totalmente all’una o altra materia, sarà divenuto un problema insapore e incolore. Attenderle entrambe, creandole persino con la foschia dell’ombra delle parole, è saper solcare il tempo. Disperdendo nello spazio sementi raggianti.
Feconde, se le loro radici potranno insinuarsi nella terra. In quel crescendo asimmetrico, al riparo dalle saette del sole che il germoglio desidera, vagando nella tenebra per riaprirsi al richiamo non funesto dell’ombra. Antigone dovrà smentire se stessa, le parole che Sofocle le attribuisce saranno disdette, lei adolescente generosa ancora ignara della potenza della luce interiore. Una volta gettata nel buio della caverna, infatti, il suo strazio consente al divino di perdurare. Il suo gesto di cura verso il fratello ha acceso una lanterna dentro e fuori la roccia. Sa dimostrare ora al buio, nel destino fatale, che nulla è o può dirsi privo di luce finché respiro umano si possa ancora sprigionare esalando amore. Stupita, la figlia e sorella di Edipo si avvede che è lei il chiarore, necessario alle parole che parevano estinte. Antigone è l’eterno barlume nel silenzio non più sepolcrale. Nel luogo, accanto alla vergine non umiliata ma vittoriosa, dove non temiamo più di origliare gli abissi; dove la morte è un inganno del buio, che sa di non poter strapparsi dalla luce. Antigone è vaticinio poetico: ci guida verso le nostre oscurità, mostrandoci che in verità esse sono fonte di luce. Antigone c’è anche se non c’è. Qui o altrove. Nessuna patria può accoglierci quando non si accetti il chiarore pallido ed onesto della misericordia. Quando vanamente nascondendoci, per non esporci alle luminescenti ombre, fuggiamo il fecondo lato oscuro della vita, nel quale si spegne ogni finzione. Mai vi sarà indizio fioco o smagliante di poesia, cui venisse sottratta la parola a quell’ombra che il cantore di queste pagine ci disegna attorno, includendoci nella leggenda della luce e dell’ombra. Seguiamolo, per non perderci nella discesa o nella salita, riconsegnando finalmente un epos al nostro esistere.
Duccio Demetrio
Angelo Andreotti, Dell'ombra la luce
Prefazione di Matteo Bianchi
e postfazione di Duccio Demetrio
L'arcolaio, 2014, pp. 95, € 11,00