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Lidia Menapace. Il o la paziente a pezzi
13 Maggio 2014
   

Secondo il giorno e l'ora concordati tempo addietro, la mattina di lunedì 12 alle 7 mi sono presentata al reparto di oculistica dell'Ospedale di Bolzano, per essere operata di cataratta all'occhio sinistro. È un'operazione di routine e lo sapevo bene, avendo già fatto una trentina di anni fa la stessa operazione all'altro occhio. Arrivo in reparto, e dopo che mi hanno dato un camicione bianco raccomandandomi di tenere sotto solo le mutande, mi caricano su un lettino a ruote, donde vengo scaricata (anzi mi scarico, dato che ce la faccio) sul lettino operatorio. Sento parlare di una mitica dottoressa che è arrivata in visita e capisco che è una collega andata via da Bolzano tempo fa e oggi di nuovo qui. Quando un viso coperto dalla mascherina e dalla cuffia si china verso di me chiedo: “È lei la mitica?” e facendo un paio di battute scopriamo di essere due arieti, povero chirurgo alle prese con due teste dure come noi. Incomincia l'operazione e il chirurgo continua a dirmi “Brava, bravissima, stia tranquilla ancora due minuti”. Ma mi accorgo che l'operazione dura molto di più di quella di una volta. Alla fine è fatta e vorrei ringraziare il chirurgo e fare alcune domande, ma scappano via tutti e tutte e resto con buona educazione e curiosità insoddisfatte.

Durante l'operazione il chirurgo a un certo punto si è lamentato del caldo e avrebbe voluto una ventola: “Un flabello!” dico io e fornisco una dotta spiegazione sui flabelli che in Egitto e in Persia gli schiavi sventolavano sui potenti accaldati. Come noi oggi con i ventilatori elettrici. Si scopre che sono una ex profe del Classico di Bolzano e si felicitano per avere imparato il flabello. È finita e vorrei ringraziare il chirurgo e fare un paio di domande, ma scappano via tutti e tutte e resto con curiosità e buona educazione insoddisfatte. Vengo poi portata da una dottora che mi benda e dice che cosa devo fare, scopriamo di essere ambedue mancine e mi rinvia all'indomani per togliere la medicazione.

Oggi 13 alle 11 e 30 appuntamento per chiudere, mi presento e devo aspettare e poi vengo mandata da una nuova dottora: questa rigida e burocratica, le sue infermiere naturalmente efficienti pulitissime e ordinate e però grezze che parlano e parlano continuando a dirmi: “Ha capito? Ha capito?” e chiedo se possono scrivere le regole: figurarsi sono già scritte sulle carte che mi danno. Ho la sgradevole sensazione di essere un pezzo di ingranaggio, senza possibilità di relazione, tutte macchinette a pappagallo. Insomma trovo poi a casa scritto che devo mettere certe gocce nell'occhio quattro volte al giorno per i primi sette giorni e inseguito tre gocce di un altro medicamento per tre settimane tre volte al giorno. Peccato, tutto così meccanico! Davvero non sono mai contenta.

Comunque ciò che avrei voluto chiedere è che tre anni fa mi spuntò un neo proprio sotto la palpebra inferiore dell'occhio sinistro e sapendo che i nei è meglio lasciarli stare, così ho fatto per un paio di mesi, ma poi siccome mi dava fastidio ogni volta che mi asciugavo la faccia, sono andata in dermatologia e lì fatta la biopsia hanno deciso di levarlo peché era maligno. Sono sotto i ferri con l'anestesia locale e quindi del tutto indolore e sento il dermatologo chiedere “Dammi un uncino!” e così via due o tre volte. Mi dice alla fine che è stato davvero utilissimo aver operato perché il neo aveva già messo fuori delle metastasi che aveva dovuto estirpare (con gli “uncini”?) per fortuna tutte volte verso il basso e non verso l'occhio, altrimenti si sarebbe dovuto levarlo. Meno male davvero! ma forse qualche traccia di quelle uncinate è rimasta e ha ostacolato e reso più difficile la cataratta. Mah!: questo non lo saprò mai, spero.

 

Lidia Menapace



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