Sei comuni e nessun candidato. Pare che le amministrative in programma il 25 maggio non interessino a tutti. Sicuramente non ai cittadini dei sei paesi italiani nei quali non è stata presentata alcuna lista e che, anziché eleggere un nuovo sindaco, vedranno l’arrivo di un commissario prefettizio. Con buona pace di quanti, in questo periodo, sono nel pieno della campagna elettorale.
Dalla Lombardia alla Calabria, il “fenomeno” interessa un po’ tutto lo Stivale. A Locatello (Bergamo) nessuno vuole prendersi la briga di sedersi in giunta comunale visto che, allo scadere dei termini per la presentazione delle liste, dei candidati non s’è vista nemmeno l’ombra. Stessa sorte è toccata a Esino Lario, in provincia di Lecco, dove il sindaco uscente si è detto “deluso, amareggiato e anche un po’ preoccupato”. Per restare in Lombardia, poi, anche a Mazzo di Valtellina (Sondrio) le cose non sono andate meglio visto che, qui, nemmeno il primo cittadino in carica ha voluto ripresentarsi.
Ma non è solo il profondo Nord a svestire la fascia tricolore. Neanche ad Aquila D’Arroscia, poco più di 170 anime in provincia di Imperia, si terranno le elezioni: urne chiuse per mancanza di lista. E ancora: a Sant’Angelo Del Pesco (Isernia) non c’è un solo cittadino che voglia farsi carico del Municipio, così a presentarsi alle comunali non ci ha pensato nessuno. Va un po’ diversamente a San Lorenzo (Reggio Calabria), ma il risultato è lo stesso: qui, dopo mesi di discussioni sui nomi da inserire in lista, l’unica cosa certa è stata la resa. Meglio-il-commissariato, si devono esser detti i laurentini.
Finisce allora che in questi sei comuni di fare il sindaco non ne vuol sapere proprio nessuno. Anche perché, parliamoci chiaro, un conto è governare una città come Milano o Roma o Firenze, un conto è prendersi carico delle esigenze di un piccolo borgo che conta a stento qualche centinaia di residenti. Stipendio zero, in genere si parla di indennità di carica: cosa più simile a un rimborso spese che a una paga, visto che si aggira tra i 300 e gli 800 euro. E va aggiunto che a far i conti in tasca ai sindaci ci ha pensato il loro ex collega per eccellenza, Matteo Renzi: nella spending review proposta dal premier quell’indennità, per i primi cittadini dei comuni sotto i 1.000 abitanti, viene tagliata di netto.
E passi per i grandi partiti (si tratta per lo più di realtà di provincia, dove spesso a farla da padrone è la logica del voto-l’amico-non-il-colore-politico), ma che nemmeno le liste civiche siano riuscite a produrre un candidato lascia perplessi. Il risultato è semplice: per adesso arriva un commissario e arrivederci alle prossime elezioni.
Mettiamoci una pietra sopra: la fascia tricolore non va più di moda. Ma il motivo? Menefreghismo, indifferenza, scarsa remunerazione a fronte di una responsabilità impegnativa? Azzardare ipotesi è rischioso: ogni paese è una realtà a sé. Però il rifiuto di gestire la cosa pubblica, e di farlo nella sfera che è più vicina, concreta e pratica, ossia quella comunale, rappresenta un campanello d’allarme che è da sciocchi ignorare.
Sei comuni che preferiscono il commissariamento prefettizio (con gli annessi costi, che variano da caso a caso, ma che sono comunque più alti dello stipendio di un sindaco di provincia) piuttosto che il naturale governo di un Municipio, dicono che qualcosa non funziona come dovrebbe. Forse è venuto meno l’entusiasmo, forse la disillusione politica si è talmente radicata che preferiamo non far nulla piuttosto che provarci. Tanto-ci-penserà-qualcun-altro. O forse la vera antipolitica è questa, non quella di Beppe Grillo.
Claudia Osmetti
(in Libero, 8 maggio 2014)