La mia scoperta di questi giorni non riguarda i miei romanzi impregnati da odori insulari, intrugli o acquasanta con sangue di capretto e Scarlatti in sottofondo. Non tratta del melodramma lasciato in eredità da Félix B. Caignet o delle meravigliose trappole linguistiche che mi fecero innamorare quando da bambina leggevo Eliseo Diego. No. La mia scoperta di questi mesi riguarda un gruppo di giovani autori cubani che, come è stato in tutti questi anni, sono parte dell’intelligenza emotiva che muove la nostra letteratura e i suoi miracoli.
Cosa ci è successo, dove ci trovavamo, che cosa abbiamo provato quando per la prima volta abbiamo tenuto tra le mani un libro di: Antonio José Ponte, Reinaldo Arenas, Sigfredo Ariel, Ena Lucía Portela, Pedro Juan Gutiérrez, Reina María Rodríguez, Marilín Bobes, Atilio Caballero, Alejo Carpentier, Leonardo Padura, Cabrera Infante, Osvaldo Sánchez, Omar Pérez, Karla Suárez, Lezama Lima, William Navarrete, Dulce María Loynaz, Eliseo Alberto Diego, Eliseo Diego, Guillermo Rosales, Odette Alonso, María Elena Cruz Varela, Nicolás Guillén, Raúl Rivero, Senel Paz, Jesus Díaz? Devo dire che scoprire un nuovo autore cubano che mi piace e mi emoziona significa per me scoprire una nuova Cuba, luogo in cui sembra non restare nessuno su cui contare per poter intraprendere un simile viaggio, ma poi, all’improvviso, come per magia, dalle macerie e dall’oscurità spunta una voce.
L’autore di cui parlerò oggi fa parte di una curiosa generazione di nuovi scrittori nati tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, ma di tutti loro parlerò tra qualche giorno. L’autore a cui mi riferisco oggi ha 24 anni, è un giornalista, vive all’Avana in affitto perché come il grande Virgilio Piñera è nato a Cárdena, Matanzas, e tutte le sue vicissitudini costituiscono il serbatoio di rabbia dal quale trasmette la propria forza. Il suo modo di raccontare è serrato in paragrafi lampo, che terminano come cazzotti, paragrafi molto vicini a Salinger e Cumings; la sua carica, la sua maniera audace di chiudere le frasi arrivano da quella letteratura americana che tanto ci ha fatto bene leggere, e che abbiamo poi fuso con l’eccellente drammaturgia classica russa e la poetica di argentini come Osvaldo Soriano e Alejandra Pizarnik. Poi ci abbiamo aggiunto una giusta dose della Yourcenar, che ci ha permesso di sfiorare quella parte dinastica del linguaggio chiaro e composto che contrasta con la realtà cubana, impasto denso che ancora si amalgama a referenti propri e prestati, quello specchio multiplo che termina in Mishima e ci riassume nell’esotico caleidoscopio di accenti differenti e miscugli rubati che recitiamo come nostri.
La tarde de los sucesos definitivos, romanzo di Carlos Manuel Álvarez, Premio Calendario 2013 della AHS (Asociación Hermanos Saíz, ndt). Pubblicato da Editorial Abril è stato presentato all’ultima Fiera del Libro dell’Avana ed è, secondo me, uno dei migliori romanzi scritti su quest’isola dal 2000, perché proietta tutto il vuoto e la devastazione di due personaggi venuti dall’entroterra in un popoloso internato, terra di nessuno verticale. La coppia giunge separatamente in uno spazio di vuoto preso dalla diaspora, dalla morte e dal disincanto. I due giovani, nati negli anni 90, si ritrovano a scavare in una città completamente sgombra, sconnessa, distrutta, ma allo stesso tempo inondata di ricordi e segreti da scoprire. Lo spirito della città li accompagna per tutto il tempo nella figura di Ángel Escobar, grande poeta cubano che, secondo il protagonista di questo romanzo, non è morto né si è suicidato… assolutamente; adesso possiede una libreria in quello che è – ancora oggi per gli abitanti dell’Avana – e non nella sua finzione, l’edificio dell’impresa di pompe funebri Rivero.
Nei deliranti minuti in cui nella narrazione si discute – senza un’intenzione precisa – di letteratura inglese o nordamericana, lo si fa con la leggerezza di chi parla di sostituire un pezzo di ricambio a una vecchia Lada, o di riporre il pranzo in un portavivande nero, perché la letteratura rappresenta per il protagonista una questione domestica che lo mortifica in maniera esagerata. Ci addentriamo cosi nella nostra letteratura attuale attaccati alle sottane del suo primo romanzo: tatuaggio a sangue freddo di una voce che non deve nulla a nessuno. Il modo delicato di trattare e catalogare una vita cilena, un mondo cileno nella sinistra disincantata e decadente, la struttura verbale intessuta con eleganza e ironia. La mancanza di soluzioni al nostro melodramma, disastro sentimentale tra due, tre, sette esseri promiscui che non riescono a trovare soluzione tra loro, quel modo in cui qui ci amiamo in un disordinato passo circolare conduce Carlos Manuel a un finale insperatamente tormentato. Il finale è perentorio. Codardo ma risoluto nella sua determinazione di voler concludere le cose di colpo.
Alla fine dei suoi “avvenimenti decisivi” comprendiamo che qui nasce una nuova tappa della letteratura cubana attuale. Una letteratura che prende a pugni i luoghi comuni manichei e che desidera urlare il corso delle miserie umane accadute fino alla generazione dell’autore, il cui linguaggio abbonda nel raccontare ciò che sente. Lui non è interessato a un cammino diretto che lo conduca da alcuna parte. Si tratta di uno scrittore venuto a tratteggiare ciò che pensa con mani di fata, esperienza, eleganza, dolore contenuto, nerbo e voglia di urlare “questa bocca è mia”. Vive con me in questo apparente “nessun luogo” che è Cuba, il favoloso mondo che condivido con Carlos Manuel Álvarez Rodríguez.
Wendy Guerra
(Habáname, 31 marzo 2014)
Traduzione di Silvia Bertoli