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Gianfranco Cordì. Lo sguardo di Antonio Saccà
01 Aprile 2014
   

L’opera di Antonio Saccà presenta delle evidenti somiglianze con quella di Maurits Cornelis Escher. Ma non è tanto questo il punto che ci interessa. Il punto (e il senso preciso) che ci interessa in questa sede è che lo stile (o corrente) fondato dal pittore nato a Reggio Calabria il 26 ottobre del 1948 – cioè l’intersezionismo – si configura come un gioco dell’intelligenza all’interno del quale l’arte brilla di nuove potenzialità e possibilità nonché alla fine di inedite prospettive – una parole, questa, tanto cara al nostro pittore. Se in Escher il concetto se ne stava «dietro», alle spalle, alla base, sotto traccia (quasi fosse tessuto di un ordito e di una trama che poi il grande litografo olandese riusciva a restituire ed a costruire per far vibrare, attraverso l’intelligenza, le corde dell’emozione, riuscendo quasi a far dimenticare o trascendere la costruzione concettuale primigenia) in Saccà adesso – sia pure nella notevole identità di intenti – il discorso diventa molto diverso. Antonio Saccà, infatti – pittore premiato tra l’altro, coincidenza delle coincidenze, anche con il “Gran Premio d’Olanda” – non parte affatto dal concetto. In effetti al nostro artista è del tutto estraneo il significato del tessuto al di sopra del quale imbastire la narrazione pittorica, ovvero l’immagine che parla. Saccà non conosce nuclei, basi da cui partire, agenti primigenei, ipotesi di lavoro, incipit lungamente meditati. Saccà ha invece a che fare esclusivamente con intersezioni di figure, di elementi, di oggetti, di immagini, di cose disegnate. Egli non parte affatto da alcuna idea. Piuttosto: lascia che siano gli oggetti ad interagire fra di loro. Ma lo fa non alla maniera in cui Escher, per esempio nella litografia Lizard del 1942, mette in scena i suoi rettili che si intersecano sì fra di loro ma non lasciano alcuni margini al bianco della tela o alla traccia di un altro possibile colore o ancora, perché no, anche a qualche altra ipotetica figura da disegnare. No. Per Saccà l’intersezionismo è una faccenda molto più radicale. Alcune figure non immediatamente riconoscibili per quello che sono si intersecano e giocano intelligentemente con gli occhi e soprattutto lo sguardo dell’osservatore. Il gioco giocato dal giocatore Saccà non è il concetto e neppure la definizione. Questo era il gioco del giocatore Escher. Quello del pittore reggino, invece, è il divertimento della figura e dello spettatore. E questa intersezione (figura-spettatore) lontana dal produrre o secernere un ordito o una trama a sua volta concettuale, va a generare invece una serie e un coacervo di elementi. Allo sguardo (dello spettatore) tali distinti elementi si decodificano e si decifrano, poi, semplicemente come lucertole (anche qui!), labbra, volti di donna, occhiali ecc. Ma, ancora una volta: non è neppure questo il punto!

Saccà intersecando sapientemente oggetto e sguardo crea un opera chi si trova del tutto al di fuori del quadro e completamente staccata dallo sguardo dell’osservatore. A metà strada tra l’oggetto dipinto (un cappello, ad esempio) e gli occhi di una gentile signora della buona borghesia che lo osserva, si staglia una nuvola. Dentro questo nuovo elemento meteorologico, che non si trova nella parete dove si trova il dipinto e non sta affatto nello sguardo ammirato della buona borghese, esiste e finalmente si sviluppa pienamente l’intersezionismo. All’interno della nuvola: la figura (il cappello) e gli occhi della spettatrice figliano una miriade di altre figure ed elementi incrociati e un coacervo di sguardi obliquamente rincorrentesi l’uno con l’altro. Il patchwork – a questo punto – è completo! E, nel quadro (volendo tornare per un attimo alla parete) l’intersezionismo di labbra, animali, occhiali ecc. restituisce adesso straordinari effetti oculari. L’opera in sé (tutta quanta l’opera realizzata attraverso l’intersezionismo) aderisce allo sguardo. Le due cose diventano una. La simbiosi è completa. Lo sguardo diventa oggetto. La visione sono le figure dipinte e le figure dipinte diventano occhi. Lo sguardo si fa tela: e quella di Antonio Saccà si rivela la pittura totale. Insomma: non esiste più soluzione di continuità tra chi guarda il quadro e quello che viene dipinto nel quadro. Nel teatro, questo avvenimento, sarebbe esemplabile nell’occorrenza del pubblico che diventa la commedia. L’intersezionismo si configura come interazione: come nei Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello. Ognuno costruisce la propria opera, il proprio quadro!

In qualche maniera (strana, stranissima…) Antonio Saccà mette a disposizione dello spettatore la possibilità stessa di farsi, egli stesso, pittore, artista. L’opera di Saccà, allora, è definitivamente il suo stesso pubblico. Non più il quadro che egli ha dipinto, egli ci consegna alla visione, ma – fermo restando che tale quadro è un tramite per una costruzione da bulbo oculare – lungo una intersezione generata da iridi e da cornee alla fine una nuvola dentro cui avviene il collasso tra tela e sguardo. Escher, lo si è detto, lavorava sul concetto. E gli oggetti che egli dipingeva giungevano certamente nel transito della visione a risultare molti simili a quelli dipinti da Saccà. Essi pure, erano abbastanza intersecati. Ma Escher era un tipo chiaro (e Descartes, avrebbe detto: anche distinto): i suoi elementi erano immediatamente riconoscibili. Saccà, invece, sviluppa trame e orditi in totale assenta di tessuto. Saccà lavora col vento, nelle nuvole. Nella brezza fresca del mattino. Ecco perché si può pensare ad Antonio Saccà come al poeta dello sguardo. Ovvero: il melodioso aedo di quello sguardo dell’osservatore che egli, ad un certo punto, riesce a fare diventare quadro. Certo, per riuscire a fare questa cosa è necessario un certo sguardo. Proprio come recita il nome della sezione del Festival di Cannes fondata da Gilles Jacob nel 1978 e che riunisce tre sezioni fuori concorso: Un certain reagard. Un certo sguardo da parte di chi guarda il dipinto e un certo dipinto pronto ancora una volta ad Un certain reagard. Occorre insomma una armonia (oggetto-occhio). Escher otteneva e realizzava la propria armonia attraverso postulati dell’intelligenza. Saccà, da poeta della pittura, la realizza attraverso l’intersezionismo: la compartecipazione, il reciproco scambio di funzioni umane sensibili e di linee colorate. In Saccà tutto risulta essere più aereo, indefinito ma anche più magico. Forse il risultato è lo stesso; forse il senso è il senso di Escher. Anche Saccà in fondo gioca (e gioca duro) con l’intelligenza. Forse il risultato è identico ma il pittore reggino ha previsto e preventivato anche un certo sguardo. Un certo modo di guardare le opere che egli dipinge. Un dover essere. Un Tu-devi. Un imperativo categorico. Saccà non è un pittore. No. È un mago. Il suo intersezionismo non può essere evitato da nessuno. Proprio come un mago – uno di quelli bravi – Anotnio Saccà seduce chi si ferma a contemplare i suoi dipinti. Proprio come un mago, Saccà prende la mano di chi sta osservando. Proprio come un mago, Saccà fissa il suo interlocutore e gli dice: “A me gli occhi, please”!

 

Gianfranco Cordì


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