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La vendemmia
Immagine dal passato
Immagine dal passato 
14 Ottobre 2006
 
  In un tempo abbastanza recente ed ancora oggi in paesi meno modernizzati del nostro, l’idea dell’autunno è sempre stata legata ad un senso di opulenza e di abbondanza. L’autunno è la stagione dei raccolti, quella che fa odorare le cantine dell’aspro dei mosti e le vecchie stüe dell’acuto profumo delle mele riposte. Ora questa sensazione di gioiosa abbondanza è pressoché scomparsa: l’attività dell’agricoltura è diventata quasi marginale; si direbbe più una specie di hobby per qualche vecchio che ancora non è riuscito a rendersi conto dell’inutilità della ricerca di guadagno strappato alle dure zolle della terra.

Ma un tempo, quando l’economia nazionale e quella valtellinese in particolare, era quasi completamente legata all’agricoltura e all’allevamento del bestiame, la stagione del raccolto era una specie di gioiosa frenesia che prendeva tutti, interessando la gente di tutte le età in rapporto alle loro capacità.

C’era chi raccoglieva noci e castagne, chi coglieva mele dagli alberi, chi falciava l’ultimo fieno, e poi, una specie di festa per tutti: la vendemmia, per cui non esisteva distinzione d’età e di forze. Persino i vecchi nonni, ormai troppo stanchi per trascinare le loro ossa deformate da decenni di fatiche fuori dall’aia di casa, venivano portati sul luogo della vendemmia, dove stavano seduti accanto agli ultimi nati, riposti in qualche gerla o cavàgna e guardando con occhi più luminosi del solito i grandi grappoli neri che cumulavano via via nelle gerle e quindi nei tini. La loro gioia era grande perché per tutto l’anno avevano scrutato il cielo giorno per giorno, paventando prima le malattie della vite e poi la grandine ed infine l’inverno troppo precoce, mentre ora finalmente vedevano compensate le loro ansie e le loro paure, Quando l’uva fosse stata riposta nelle capaci tine, nulla più avrebbe potuto minacciarla.

Alle generazioni più giovani tutto questo sembrava assurdo, esagerato, frutto di una mentalità retrograda e gretta; ma chi ricorda i contadini di una volta, chi li ha visti strappare ai rovi e agli sterpi la terra palmo a palmo, per riportarla, sulle spalle, all’inizio di ogni primavera, nella posizione in cui si trovava l’anno prima e da cui le piogge e la neve l’avevano rimossa, è ancora in grado di capire perché la vendemmia a quei tempi fosse l’avvenimento più importante. Un raccolto andato a male poteva significare un inverno di stenti, la mancanza di tanti conforti, a volte, addirittura, dei soldi per le medicine o per il vitto. È per questo che la vendemmia diventava una specie di rito. Già quando verso la fine di agosto i chicchi cominciavano ad assumere il caratteristico colore scuro, la "stanza del tesoro" veniva serrata per difendere i grappoli dai ladri. Lungo l’argine, alla fine delle costruzioni di via Ortigara, a metà dell’odierna via Arcari, alla sommità del Risciùn, a metà della vecchia strada che da Porta Bormina porta a Cologna ed in tutti i punti di accesso alle vigne, venivano erette le porte dell’uva: veri e propri sbarramenti che non permettevano a nessuno l’accesso ai vigneti. Le guardie dell’uva giravano per la campagna sempre in agguato contro eventuali ladri o trasgressori del bando della vendemmia. Per ultima precauzione i filari che si affacciavano sulle stradicciole di campagna venivano comparsi di uno spesso strato di calce, in modo che a nessuno, passando a piedi, venisse l’idea di allungare la mano e strappare qualche grappolo.

Del resto nessuno, a meno che non fosse forestiero, si sarebbe sognato di toccare l’uva di un altro: troppo radicato era il senso del rispetto della proprietà e delle fatiche altrui. Quando finalmente l’autorità comunale stabiliva la data d’inizio della vendemmia, allora ci si apprestava alla grande fatica. Dal fondo delle cantine, dove erano stati riposti l’anno prima in modo che l’umidità tenesse fisse le doghe, venivano riportati alla luce i tini e riempiti d’acqua per qualche giorno in modo che le doghe si serrassero bene dentro i cerchi metallici. Frattanto si preparavano i carri, si toglieva il pianale superiore: la calastra e al suo posto veniva issato lo scalùt, una specie di scala robusta su cui poi doveva essere fissato il tinèl per mezzo di quattro lunghe viti di ferro, rinforzate da qualche stretto giro di fune. Si provvedeva quindi al lavaggio delle tine in cui doveva fermentare il mosto ed intanto le donne provvedevano alla pulizia accurata di gerle e cavàgne curandosi anche di sostituire qualche stròpa o scudèscia che si fosse guastata. Quando tutto era pronto, nel giorno stabilito dal bando, cominciavano le operazioni; l’inizio era di solito di giovedì ed interessava la prima zona püriva cioè quella meno soleggiata che si estende dalla riva sinistra dell’Adda fino al limite inferiore dei castagneti.

Questa prima fase passava in po’ in sordina perché su quel lato gli appezzamenti sono pochi adesso, ma non erano molti di più neppure allora e anche la qualità dell’uva è più scadente ricevendo meno sole ed essendo prodotta da vitigni meno pregiati. Il lunedì della settimana seguente si scatenava invece l’operazione solìva con uno spiegamento di forze tale da far sembrare tutta la costa che dalle ultime case di via S. Giacomo e dal Cràp del Düch si inerpicano su su fino a Roncaiola e Baruffini, salendo fino a livello dello sbarramento di Sernio, un immenso alveare multicolore dove uomini e donne di ogni età si muovevano con un frenetico andirivieni .

Si intrecciavano canti e richiami da un filare all’altro; ovunque regnava l’allegria e ferveva il lavoro. Le piccole stradette in mezzo ai vigneti, costruite in modo da lasciar passare a malapena i carri, così da non rubare spazio alle colture, erano tutte un’interminabile fila di tini che andavano e venivano trainati da buoi, asini e cavalli, con gran difficoltà allorché si intersecavano fra loro data l’esiguità dello spazio. I viciürin urlavano ordini alle loro bestie e sudavano, tutti presi dalla responsabilità di avviare alle cantine tanto ben di Dio.

Questa scena si ripeteva per intere giornate e sempre con la stessa frenesia. La sera, prima del ritorno, si rifaceva il giro dei filari a spigolare in modo da non lasciare neppure un grappolo prezioso attaccato ai tralci, mentre le vecchie nonne raccomandavano ai nipoti di raccogliere bene i chicchi caduti a terra, perché è da essi, dicevano, che esce il mosto, ricordando anche come i frati di un antico convento avessero riempito una botte intera di vino, solo con i chicchi raccolti nei vigneti dove già la vendemmia era stata conclusa.

Dalla campagna il movimento si estendeva anche al paese. Sul ponte vecchio i carri si susseguivano ininterrottamente. Al di là del ponte, davanti alla selleria Nani, le panche, all’uopo apprestate, erano continuamente occupate da gerle calate fin lì da Baruffini ed in attesa di acquirenti; sotto la volta del Palazzo Pretorio, sulle vecchie panche di pietra, c’era un’altra fila di gerle pronte per essere recapitate a destinazione. Dietro ogni tino venivano donne e uomini con gérli in spalla e cavàgne appese ad entrambe le braccia, colme dei più bei grappoli di brügnöla da riporre per l’inverno.

Lungo le vie c’era poi un via vai di facce nuove: i nostri vicini elvetici che allora affluivano in gran massa col trenino del Bernina per venire a comprare la nostra uva; (detto per inciso, adesso si sono comprati anche le vigne, ma questo è un altro discorso).

Qualche contadino ricorreva al trucco di far figurare di proprietà di qualche commerciante poschiavino un certo appezzamento di terreno in modo da potere, in base alla stima fatta da esperti, esportare il vino senza pagare il dazio. E quel che è sorprendente è che tutti questi mercati avvenivano esclusivamente sulla parola e ciò nonostante tutto andava per il meglio e non sorgevano mai contestazioni. O la gente era più onesta o le regole sono cambiate: chissà!

Quando i tini arrivavano a destinazione si provvedeva alla pigiatura: di solito era il capo della famiglia che tolti gli scarponi e i tradizionali scalfaròt di lana di casa si immergeva fino alle ginocchia nel mosto che via via si spremeva dai grappoli. Detto senza cattiveria, qualche volta questa rappresentava una delle rare occasioni che davano poi pretesto per un pediluvio.

Finita la pigiatura, il mosto veniva versato nelle brénte e quindi per mezzo della pédria incanalato nelle capaci botti.

Al termine di vari giorni di ininterrotto lavoro alla fine tutta l’uva era riposta in cantina e cominciava la fermentazione.

Si sentiva allora, passando per le vecchie contrade, l’acre odore dei gas di fermentazione che penetrava dappertutto impregnando i vecchi muri mentre i contadini si preparavano all’ultima fatica dell’anno, quella della torchiatura, che chiudeva così il ciclo del loro lavoro e preludeva alle lunghe serate d’inverno in cui quel vinello appena spillato sarebbe andato a condire il sapore fragrante dei braschée.

Negli ultimi anni le cose sono un po’ cambiate; si fa ancora vendemmia, ma essa ha perduto molto del suo fascino. Lo scarso reddito dell’agricoltura, lo spopolarsi delle campagne e delle contrade più distanti dal paese per motivi economici e per la continua ricerca di redditi più sicuri, ha spogliato anche il rito della vendemmia di tutto il suo fascino bucolico. I buoi e i cavalli sono stati sostituiti dai trattori, i vimini delle gerle hanno ceduto il posto alla plastica; la pigiatura, anziché dai piedi nudi sotto i pantaloni rimboccati del contadino, viene seguita da macchine; lunghi tubi e condotti portano l’uva direttamente alle botti senza l’aiuto della tradizionale brénta. Anche chi coltiva la vite in proprio preferisce vendere l’uva alle cantine sociali o alle case svizzere, che pian piano si sono assicurate una larga fetta di vigneti, e tutto assume un carattere prosaico e privo di quella forma rituale che era la caratteristica di un tempo. Dove non si arriva con le macchine i rovi stanno nuovamente prendendo possesso del terreno e il bosco si avvicina sempre più alle rive dell’Adda.

I vecchi contadini, quei pochi che sono rimasti, preferiscono guardare le loro vigne dalla soglia di casa; forse non riconoscerebbero più la vecchia cara vendemmia; il loro rapporto con la terra non riuscirebbe più ad essere intimo come una volta; le zolle, ormai disuse al loro sudore e sempre più avvezze all’odore del petrolio dei motori, non riuscirebbero più a riconoscere la mano che per generazioni le ha plasmate, accarezzate ed amate come si può amare solo chi sa quanto dolore e quanta fatica costi strappare alla terra quei frutti che, appunto perché tanto sudati, diventano tanto preziosi.

 

Domenico Corvi

(da Tirano & dintorni, ottobre 2006)


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