Laurent Mauvignier
Degli uomini
Feltrinelli, 2010, pp. 206, € 16,00
Il lettore non sa perché Bernard, da tempo conosciuto come Fuoco di legna, abbia fatto irruzione, ubriaco fradicio e maleodorante, in casa dell’arabo Chefraoui, quando i bambini si sono rifugiati inorriditi e zitti in camera, e la moglie di lui ha rischiato la violenza, e Bernard ha picchiato selvaggiamente il cane che l’ha morsicato. Per fortuna è rincasato Chefraoui, e lui è scappato. E nessuno dei presenti alla festa di compleanno di Solange, sorella di Fuoco di legna, sa spiegarsi dove Bernard, che vive come un barbone, abbia potuto trovare i soldi per regalare alla sorella uno splendido gioiello. Degli uomini (Des Hommes, Les Editions de Minuit 2009, Feltrinelli 2010) scopre un ferita nella vita di Bernard, uno squarcio dell’anima, con un procedimento a ritroso, attraverso la voce narrante di chi ha visto tutto ci che a lui ha segnato profondamente la vita.
Nel 1960 Bernard è stato inviato giovanissimo in Algeria, dove i partigiani, i fells, combattevano per l’indipendenza dalla Francia, dove molti algerini si sentivano ormai francesi e stavano con l’esercito, dove la guerra di liberazione ha visto dall’una e dall’altra parte le stragi più efferate. Era partito di malavoglia, lasciando nelle mani di sua madre una notevole somma che lui aveva vinto, col dubbio di non trovarla più intera al suo ritorno.
In Algeria Bernard ha visto troppo, e non ha fatto nemmeno ritorno al suo paese alla fine della guerra, tenuto lontano da orrore del ricordo, vergogna, umiliazione. Torna dopo dieci anni, lasciando altrove moglie e figli, non parla con nessuno, forse ha dei conti in sospeso. Altri sono rimpatriati subito, come Rabut, suo cugino, ma nessuno ha raccontato mai quello che era successo laggiù, del resto nessuno ha mostrato curiosità intorno ad una guerra da cui il Paese era uscito sconfitto. E comunque «chiedo che faccia farebbero, i vecchi, sopra le carte e gli altri dietro il banco, se invece di rispondere con un sorriso e con un sì, se gli dicessi cos’abbiamo visto, cos’abbiamo fatto, dopo quanto tempo il padrone del bar direbbe, Taci, basta. Quanto bisognerebbe raccontargli, dei tizi che lasciavamo andar via e a cui sparavamo un colpo in testa e che spingevamo a calci nei burroni perché se li mangiassero gli sciacalli e i cani». Questo da parte francese.
«E come si possa fare quello che abbiamo scoperto io e Bernard, sempre noi due, ancora noi due, quando abbiamo dovuto aprire la casa e scoprire il corpo di Fatiha e i genitori di Fatiha e il neonato, tutti morti, morti così, come, come si può fare una cosa del genere. Perché, fare quello che hanno fatto, non credo si possa dire… l’hanno fatto, degli uomini, degli uomini l’hanno fatto, senza pietà, senza niente di umano, degli uomini hanno ucciso a colpi di accetta hanno mutilato il padre, le braccia, hanno strappato le braccia, e hanno aperto il ventre della madre e –No. Non si può». E questo da parte dei fells algerini contro chi ritenevano stesse dalla parte dei francesi...
Romanzo doloroso che procede attraverso flashback, dove la narrazione raramente si fa fluida, perché l’emozione la blocca, la inceppa, la fa procedere lenta, e le parole si ripetono, come stupite davanti a tutto quel male, a quell’inferno. Romanzo che non solo fissa la drammaticità della fine dei colonialismi, ma fa riflettere sulle potenzialità di barbarie insite nell’umano, di cui erroneamente abbiamo creduto di veder l’apice nell’Olocausto, e invece spuntano continuamente in contesti diversi, purtroppo anche attuali. Senza che la Storia abbia insegnato niente, come se ci si dovesse adattare alla vittoria del male sul bene. In eterno.
Marisa Cecchetti