Di Ezio Raimondi, scomparso alcuni giorni fa a Bologna, dove risiedeva e dove aveva insegnato per lunghi anni nella locale Università, ho soprattutto un ricordo, di anni lontani ma rimasto fermo nella mente, come un orientamento certo: una lezione su Renato Serra, che egli fece nell’ambito di non so quale corso, e che io seguii, così come altre sue conferenze e lezioni, per un mio personale interesse. In quell’incontro, affollato come al solito di studenti e anche di qualche estraneo uditore, come il sottoscritto, mi si fissarono in modo stimolante due aspetti, che egli affrontò riferendosi all’opera del Serra: l’attenzione all’uomo nella sua più tangibile concretezza, determinato – scriverà poi in uno dei saggi fondamentali sul critico romagnolo, pubblicati nel 1993 dal Mulino, col titolo “Un europeo di provincia” – «da un mondo di relazioni complesse, secondo la varietà spesso contraddittoria dei sentimenti e dei casi che compongono la vita»; e poi «che ogni particolare appartiene ad una totalità». Illustrava questi due punti con citazioni frequenti e riferimenti ad autori, testi e movimenti filosofici, cosicché, alla fine del ragionamento, i due punti sopra citati parevano fondersi in un'unica visione di idee, sentimenti, emozioni, riflessioni, pensieri. Traduceva così in esperienza personale la lettura di uno studioso – Renato Serra, appunto – morto molto giovane durante la prima guerra mondiale, e che per questa ragione non aveva lasciato molti scritti. Ma quei pochi, oltre le lettere e gli appunti lasciati come traccia del suo riflettere sulla scrittura e la poesia, sufficienti per dare a Raimondi un elemento su cui aprire, o meglio, spalancare un discorso ermeneutico che appunto oggi, ma ancora con fatica, si sta facendo, e purtroppo non ancora nelle scuole e – in molti casi – neppure nei corsi e negli studi universitari. E cioè quell’analisi della lettura sia come atto interpretativo del soggetto che, leggendo, coglie del testo l’elemento o gli elementi sui quali può meglio riflettere ed allargare con ulteriori riferimenti; e da qui poi, il dialogo sui e tra i testi stessi, cioè quella che oggi viene definita come ‘intertestualità’. Ma, in particolare, la caratteristica di queste riflessioni raimondiane non stava soltanto in questo, ma innanzitutto nel tener presente più discipline, anche diverse tra loro, le quali tuttavia concorrevano a definire un pensiero, un atteggiamento, senza peraltro dimenticare l’uomo nella sua natura, nella sua, diciamo così, umanità. Entravano, nelle sue lezioni e nelle sue conferenze, richiami e riferimenti a territori culturali estesissimi, europei soprattutto, ma anche non di rado di altre aree antropologiche e culturali del mondo; conduceva a confronti di idee, analizzando e citando il pensiero filosofico di pensatori antichi e moderni, a sostegno di una conclusione dialettica che diventava sostanza di un modo problematico di porsi di fronte all’opera; e chiamando a sostegno o a negazione della stessa, o a parte di essa, la pittura e la musica, materie di cui aveva una conoscenza assai vasta e profonda. E così si ascoltavano, con crescente attenzione, le sue conferenze esposte con un linguaggio chiaro, pacato, molto elevato e sempre denso di richiami e puntualissime citazioni, enunciate a memoria, così come il suo discorso appariva spontaneo e dialogante, senza il sostegno di appunti o di tracce precedentemente preparate. E tuttavia le sue parole erano di un rigore preciso e perfetto, dovuto dunque allo studio ininterrotto ed intenso, all’esercizio costante della memoria e ad una scrupolosità razionale che non consentiva al discorso sfilacciamenti, ripetizioni o sospensioni alla ricerca della parola più idonea. E, come i suoi numerosissimi scritti, anche la parola era di lucida essenzialità, non ridondante di aggettivi ma sempre centrata sul significato essenziale da esporre. Nelle sue lezioni, ma soprattutto nel suo rapporto con gli studenti, era davvero il ‘maestro’, nel senso più completo della parola: colui che insegna ed educa, che orienta e conduce magistralmente ad un fine di formazione intellettuale ma anche umana, poiché – scriveva – «la letteratura non lascia mai le cose come stanno, ma vuole trasformare la memoria in esperimento, in costruzione dell’uomo». Da qui, da queste fondamenta irrinunciabili per un docente, soprattutto di letteratura e, come si diceva un tempo, di varia umanità, partiva il suo messaggio non solo culturale, ma anche pedagogico; e da qui la sua tristezza, il suo dolore nel vedere l’università bolognese, soprattutto negli anni ’70, campo di scontri di violenza dove l’infantilismo ideologico spesso si accompagnava ad un irragionevole scontro in cui doveva prevalere in modo totale ed assoluto una sola visione del mondo, della società e della cultura. Un dogmatismo violento dunque, che contrastava decisamente con quella dialettica e quel confronto che egli si sforzava da sempre di raccomandare nel suo lavoro di docente, di studioso e di ricercatore. E da qui poi, anche il decadere di quell’ordine intellettuale nato dalla paziente indagine dei testi e della cultura in ogni suo aspetto; e il disordine esistenziale, di cui proprio in quel periodo un altro maestro dell’Università bolognese, Giovanni M. Bertin, esponeva in un libro, partendo dalla visione del pensiero kantiano fino a giungere a perlustrare “le istanze della ragione”, non sulla base di un ‘pensiero forte’ ma piuttosto dogmatico, quanto su un ‘pensiero debole’ da affrontare tuttavia con la forza di una ragione formata ed educata.
La scomparsa di Ezio Raimondi è indubbiamente una grave perdita per la cultura italiana, per l’Università bolognese e per la Facoltà di Lettere di cui egli era a tutto diritto un continuatore dei grandi che lo avevano preceduto, da Giosuè Carducci a Giovanni Pascoli, a Francesco Flora, a Roberto Longhi (suo maestro per l’arte, ma anche per l’eleganza della scrittura) e Francesco Arcangeli, e a tanti altri che lo spazio ormai ci impedisce di elencare.
Nel bellissimo articolo apparso su questa rivista, che l’intelligenza di Paola Forlani ha voluto ripubblicare in occasione della morte, emerge la figura a tutto tondo dello studioso e dell’uomo Raimondi, scritta con impareggiabile linearità da mons. Franco Patruno, sacerdote di ampia e profonda cultura scomparso alcuni anni fa. Si rilegga quel pezzo, e si faccia memoria di queste persone che, nella vita, hanno donato a molti un tesoro inestimabile: il capire, attraverso la pittura, la scrittura, la musica, la scienza, in definitiva la cultura, il senso delle cose allenando, sia pure con ardue difficoltà, la ragione e l’intelletto alle difficili scelte della vita: capire, in altre parole, chi siamo, anche se poi, pessimisticamente, si è indotti talvolta a dire, come Montale: «Questo solo sappiamo/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Ma, anche così, arriveremmo a capire qualcosa: e, dopo tutto, potremo dire di aver tentato l’impresa. Insomma, ci abbiamo provato.
Gian Luigi Zucchini
Tellusfolio ringrazia Gian Luigi Zucchini, professore emerito di letteratura all'Università di Bologna, per il prezioso contributo che è onorato di mettere qui a disposizione dei suoi lettori.