Stasera si cambia programma1
Sento che mi sta fissando ma non mi volto. Continuo le mie faccende mentre la nuca mi si arroventa sotto lo sguardo sornione che non si abbassa. Intanto penso a come liberarmene. Non si può continuare a vivere così, non c’è spazio per tutte e due nella stessa casa. Potrei avvelenarla lentamente o simulare un incidente domestico o inventarmi una rapina a mano armata in cui lei resti vittima. Troppo macchinoso, non ce la farei a reggere la parte, divorata come sono dall’odio. Rischierei di essere scoperta e pagare per un delitto semplicemente necessario perché io possa continuare a vivere. E andrei comunque a perdere la posta in gioco, in questo duello mortale che dura ormai da troppo tempo.
Non sento più il suo sguardo trafiggermi il collo. Mi volto e vedo infatti libero il vano della finestra che di solito occupa per seguire ogni mia mossa, con pigrizia studiata, con noncuranza, si potrebbe dire, se non la conoscessi troppo bene.
È lei che mi sta intossicando lentamente, lei che aspetta di vedermi rotolare dalla scala o scivolare sul pavimento cerato e rompermi la testa, lei che spera in qualche intrusione criminosa che sia per me letale.
Non l’avrà vinta. E questa situazione balorda non durerà a lungo. Devo farla finita, prima che lei mi sfinisca.
Prendo gli arnesi e mi dirigo al boschetto dietro casa. Scelgo il punto e inizio a scavare. Mi spezzo la schiena, maledicendo la mia nemica, e preparo la buca. Vado nella rimessa, prendo un mezzo sacchetto di calce e lo trascino fino al boschetto. Sudando come una bestia sotto il sole di luglio. Mentre lei se ne sta comodamente sdraiata a prendere il fresco nel patio.
Ora sono io che la osservo senza che lei manifesti di accorgersi della mia presenza. Finge, ne sono sicura, nulla le sfugge di ogni mio gesto. Sa allora anche della buca che ho scavato, della calce che ho preparato accanto alla fossa. Eppure se ne sta beatamente stesa tra fiori e zampilli d’acqua come se la cosa non la riguardasse.
Non mi convince. Vorrei entrare nella sua testolina e strapparle il segreto di tanta arroganza, di tanta mascherata cattiveria. Vorrei capire come la pensa nei miei riguardi, e cosa stia architettando ai miei danni. A vederla si direbbe una creatura bella e innocente, vivace ma non troppo, allegra ma contegnosa. Ma a me non m’incanta.
Devo sbrigarmi prima che torni mio marito. E prima che mi vengano a mancare le forze. Presto tutto sarà sistemato. E riprenderò finalmente a vivere.
Sto studiando il modo di procedere, quando lei viene a sedersi di fronte a me, e tranquillamente mi scruta.
Forse l’ho sopravvalutata, forse non è così intuitiva come immaginavo che fosse. Non ha subodorato nulla, aspetta forse che le serva il pasto serale, che mi metta ai fornelli per preparare la cena al suo amato uomo.
Stasera non si mangia, bella. Stasera si cambia programma.
Indosso il grembiule e i guanti da giardiniere, afferro la zappa e fingo di smuovere la terra in giardino, il suo sguardo me lo sento sottopelle come un’orticaria bruciante ma sopporto in silenzio.
Mi volto e la osservo a mia volta, a viso aperto, con l’odio consueto perché nulla sospetti. Mi asciugo con il dorso della mano il sudore della fronte, mi avvio impugnando la zappa verso la fontanella come avessi l’intenzione di bere, lei mi segue come un’ombra malefica, io mi volto di scatto e con un colpo di zappa tento di spezzare il suo corpo in due, ma riesco a prenderla solo in parte, in minima parte, e lei balza via con un urlo, tento di inseguirla ma è inutile, riproverò domani.
Quando arriva mio marito, tutto è tranquillo; la cena sul fuoco, la tavola apparecchiata, le candele accese, il profumo del suo dolce preferito pronto da sfornare.
Ma quando mi giro per salutarlo, il terrore mi afferra.
Stringe nella mano la coda fulva della sua amata gattina, e non c’è traccia di pietà nei suoi occhi.
«Assassina» mi dice, e lasciato cadere il prezioso lembo del corpicino amato, tenta di strangolarmi.
In quel momento, magnifica e altera rientra la mia rivale. Mi fissa beffarda mentre mi dibatto cercando inutilmente aria. Sono allo stremo, sto morendo asfissiata, mentre mio marito continua a stringermi alla gola con mani d’acciaio.
Lei assiste alla mia agonia senza apparente interesse, quasi divertita ma con moderazione. Quando sto per lasciarmi andare, lei si struscia alle gambe di mio marito, e gli fa le fusa.
«Ron, ron, ronnn» e quel suono vibrante, benefico, allettante, rapisce come sempre il mio uomo, che più non mi appartiene da quando la gatta che ci è stata regalata da mia suocera l’ha stregato. E dimenticandosi di me, che cado come uno straccio a terra, si china e prende tra le braccia la sua gattina mutilata, raccatta la bella fluente coda, e a sirena spiegata corre verso il veterinario più vicino.
Non sanno cosa li aspetta al ritorno. Vado nel boschetto e prendo a spalare come un’indemoniata, mi occorre una fossa ampia e profonda che li accolga tutti e due, mio marito e la sua amante felina, dopo che li avrò entrambi tramortiti. E se tenteranno di rimettere fuori la testa, sarò lì pronta ad assestare il colpo di grazia.
Non sopporto più di vederli amoreggiare sotto i miei occhi, spudoratamente, con la mano di lui che l’accarezza a lungo sul dorso flessuoso, mentre si parlano con i suoni misteriosi degli animali in calore. Ed io ad osservarli invidiosa, accantonata e respinta.
Maria Lanciotti
1 Racconto breve da 150strade, 2013.