Si è aperta a Firenze a Palazzo Strozzi fino al 20 luglio 2014 la grande mostra Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della “maniera”, a cura di Antonio Natali e di Carlo Falciani (catalogo Mandragora). Considerati i pittori più anticonformisti e spregiudicati fra i protagonisti del nuovo modo di intendere l’arte in quella stagione del Cinquecento italiano che Giorgio Vasari chiama “maniera moderna”. Una rassegna che presenta anche un viaggio attraverso le vite parallele di questi artisti “gemelli diversi” che alla fine del loro percorso arriveranno a un riavvicinamento.
Jacopo Carrucci, detto dal luogo di origine Pontormo (Pontorme, Empoli, 1494 – Firenze, 1556) è il primo vero manierista toscano e, forse, il maggiore.
Uomo tormentato, scontroso, solitario, appare ai nostri occhi il primo caso di artista «non integrato», non nel senso di aperta e cosciente ribellione verso la società o verso il potere politico, ma per impossibilità congenita a vivere secondo norme usuali e considerato perciò già dai contemporanei un lunatico asociale. E certo anche il diario degli ultimi anni (1554 – 1556), rivela – proprio per l’ossessiva insistenza su temi banali (il cibo, la digestione, il clima - «gran fredo e gran vento e acqua» -, i pochi amici), oltre a qualche rara notazione sul lavoro – un amaro, malinconico ripiegamento su se stesso e sui propri piccoli o anche infimi problemi personali. Ma questa introversione spinta al limite estremo, questa difficoltà a vivere insieme agli altri, la preoccupazione per i propri mali fisici, la paura della morte al punto da non poter neppure sentirne parlare, elementi che sono senza dubbio caratteriali, svelano anche l’angoscia di un uomo costretto a vivere in un mondo insicuro, un mondo privo di valori, un mondo di tradimenti, di compromessi morali, di violenze fisiche.
È questa angoscia esistenziale che il Pontormo esprime nelle sue opere.
Allievo per poco tempo di Leonardo, poi di Piero di Cosimo ed infine di Andrea del Sarto, egli ha vissuto quella temperie spirituale fiorentina che vede il trapasso della gracilità quattrocentesca alla robustezza cinquecentesca, che subisce con ammirazione il fascino delle opere dei grandi artisti, che sente anche il contraccolpo delle drammatiche vicende politiche e religiose italiane e locali. Già nelle prime pitture importanti del Pontormo si constatano le sue fonti culturali e l’indipendenza della sua posizione. Nella Visitazione del chiostro della Santissima Annunziata (in mostra) vi sono ricordi di Michelangelo, di Leonardo, di Raffaello e, soprattutto, di Andrea del Sarto e di Fra’ Bartolomeo. Ma il movimento contrastato, l’allungarsi dell’ovale dei volti illuminati da improvvisi sbattimenti di luce laterale, la fissità di alcuni occhi mostrano un’inquietudine interiore che è solo pontormesca. Qualche anno dopo, per sfuggire alla peste che nel 1523 imperversava su Firenze, il Pontormo si rifugia nella Certosa del Galluzzo, nei pressi della città, trattenedovisi anche dopo la scomparsa del pericolo, e dipinge una serie di affreschi dedicati alla Passione di Cristo. Il ciclo, purtroppo molto rovinato, trae spunto dalle stampe di Dürer, il grande pittore tedesco, ugualmente dedicate alla Passione (in mostra). Il rapporto col Dürer, che non è imitazione, serve invece al pittore per rompere con la legge fiorentina dell’equilibrio e della bellezza ideale esprimendo la tragedia del fatto rappresentato con il rovello delle forme, tipicamente nordico.
Lo stesso tormento troviamo in altre opere di questo periodo (il terzo decennio del secolo), quali la Deposizione di santa Felicita e la Visitazione di Cormignano. Nella Deposizione la drammaticità è ottenuta non con atteggiamenti disperati, ma, piuttosto, con la preponderanza della piramide umana e con l’instabilità degli equilibri.
Anche nella Visitazione c’è qualcosa di allucinato nelle quattro grandi figure femminili che dominano lo spazio in primo piano, nelle luci che percuotono i volti e gli abiti dai vivi colori contrastanti, nelle pieghe dure delle stoffe e, soprattutto, nella strada vuota (solo due figurine vi sono accennate, sedute vicino al portone di un palazzo), la cui prospettiva, invece che umanamente razionale, la rende lontana, estranea.
Anche Giovan Battista di Jacopo, detto il Rosso Fiorentino (Firenze, 1495 – Fontainebleau, Francia, 1540), come Pontormo allievo di Andrea del Sarto, è, sotto molti punti di vista, un ribelle alle costrizioni classiciste ormai in crisi. Partendo dalle costruzioni equilibrate del suo maestro, ne forza le forme esprimendo un mondo inquieto e tormentato.
Il suo capolavoro è la Deposizione di Volterra (non concessa in mostra).
Simile per la forma della tavola e per le misure, oltre che per il tema, a quella di Pontormo, ma ne differisce profondamente per la concezione.
Il Pontormo ottiene il dramma per l’impossibile levità delle figure ondeggianti e per la chiarezza dei colori, il Rosso l’ottiene invece per la volumetria angolosa che sfaccetta le figure, per il movimento convulso di alcuni personaggi, per i colori intensi prevalentemente rosseggianti stagliati sulla distesa uniforme del cielo (che si schiarisce soltanto all’orizzonte).
La Pala Ginori Sposalizio della Vergine (Firenze, Basilica di San Lorenzo) di Rosso Fiorentino, ha come fulcro il san Giuseppe inusualmente giovane, quasi, adolescenziale, con la veste aperta sul petto a dichiarare la generosità del coraggio. Il tema che nella pala si intendeva porre in risalto appare, dunque quello della virtù della castità.
«Colori? Chiamali colori…», così inizia una delle più famose descrizioni dei colori mai comparse per un dipinto italiano. Si tratta delle parole che Pasolini inserì nella sceneggiatura della Ricotta, film del 1963. Ispirato a Longhi e Briganti, Pasolini colse la bellezza dei colori selvatici dei fiori di campo nella Deposizione del Pontormo. Nel realismo in bianco e nero della Ricotta ci sono solo tre scene a colori: la natura morta caravaggesca in apertura, con il cibo di cui si ingozza l’affamato Stracci e, soprattutto, le ricostruzioni delle pale d’altare del Pontormo e del Rosso.
Nel ricostruire le due pale d’altare che catturano la sofferenza di Cristo per mezzo della bellezza del colore, e nel cercare di renderle contemporanee, Pasolini corse un gran rischio. Ma fu la sua personale capacità di comprendere l’essenza radicale di queste opere a spingerlo a cogliere l’istante in cui la vita può diventare arte: anche se nel film l’attenzione per l’arte, piuttosto che per la vita, conduce il povero Stracci, ladruncolo affamato e caritatevole, a morire dimenticato sulla croce.
Maria Paola Forlani