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Le Luci Della Centrale Elettrica 
Ritratto dell'artista da giovane a maturo
12 Marzo 2014
 

Questo articolo non ha la pretesa di essere una monografia su Vasco Brondi, l'oramai celebre Le Luci Della Centrale Elettrica, ma è qualcosa di più (o di meno). Sarà un piccolissimo itinerario che parte da quel Canzoni da spiaggia deturpata che lo lanciò, fino all'odierno Costellazioni, uscito il 7 marzo. Un itinerario che correrà su un doppio binario, che talvolta si incrocia divenendo irriconoscibile nella sua duplicità: la musica del cantautore ferrarese, con tutto quello che porta con sé, si intreccerà con la ricezione della sua opera. Delimiterò al massimo il campo, parlando delle uniche cose che possa sapere, ovvero come e quanto questa musica ha influenzato la mia generazione (nati intorno al 1990) con le sue molte sfaccettature (perdonate gli inevitabili momenti di ricordo, inevitabili per i contenuti dell'articolo).

Non era ancora maggio 2008, non era ancora uscito Canzoni da spiaggia deturpata però, e questo non tutti lo sapranno, soprattutto chi non segue il ferrarese dagli esordi, girava online una demo che aveva come copertina un ragazzo che correva su uno sfondo bianco. Il nome era strano eppure intrigante, Le Luci Della Centrale Elettrica (e ai tempi ci domandavamo se andasse scritto tutto attaccato o con gli spazi, facendo impazzire le nostre librerie su iTunes) e le informazioni a suo riguardo erano praticamente nulle se si esclude qualcuno di quei forum che ai tempi ancora avevano una certa utilità. Fatto sta che questo disco era (ed è tuttora) devastante. Chitarra acustica arrabattata e suonata con violenza, talvolta distorta fino all'estremo, voce sbraitante e naturale: solo questo ed era abbastanza. Perché ci colpì così tanto? E perché proprio noi che avevamo 17/18 anni (ripeto che parlo della mia esperienza, però possiamo, credo, dilatare l'arco di tempo di circa 10 anni, diciamo arrivando agli under 30, pur con eccezioni)? Era, a mia memoria di ascolti, la prima cosa italiana che colpiva noi e solo noi, la sentivamo proprio come una cosa nostra. Credo che la cosa che più ce lo faceva ascoltare erano i testi e i modi in cui quelle canzoni erano cantate. I testi segnavano gli intenti della musica, erano emblematici sì della poetica di Brondi, ma anche di quello che volevamo sentirci dire. Erano quelle che daranno il titolo dell'album che sarebbe uscito nel maggio del 2008, erano canzoni da spiaggia deturpata. Questo disco, pubblicato dalla Tempesta e lavorato dallo stesso Brondi in collaborazione con Giorgio Canali che si occupava delle chitarre (componente i quei CCCP citati da Vasco in La gigantesca COOP: “I CCCP non ci sono più/i CCCP non ci sono più/ da un bel po'”), raccoglieva le tracce della demo precedente e le rielaborava in studio dando loro una forma più compatta (ma non migliore).

Il titolo dicevamo: non era più il tempo di suonare i tormentoni di Battisti e Venditti sulla spiaggia, ma era l'ora di dare una svolta a quelle canzoni e non vivere più del passato, suonare qualcosa che fosse caratteristico di “questi cazzo di anni zero” (“La lotta armata al bar”). È inutile stare a snocciolare le tracce del disco, sono passati 7 anni, che al tempo di Internet sembrano 100, e Internet è strapieno di articoli a riguardo; quello che mi piacerebbe far vedere è come sono entrate queste canzoni nei nostri ascolti. Di cosa parlano queste canzoni? Sono racconti di ribellioni interminabili e infruttuose, sono i racconti degli anni '00, gli anni del nichilismo che colpisce, con un eterno-ritorno, sempre la generazione dei giovani adulti o vecchi adolescenti, narrazioni di città vuote, frammenti di rabbia pura senza che ci siano svaghi ma solo luci della centrale elettrica da osservare. I testi nella loro essenza sono brevi, al limite tra il flusso di coscienza e le parole da blog, nulla di pretenzioso, solo le sensazioni vomitate e urlate in faccia all'ascoltatore. Gli accompagnamenti non sono che le impalcature su cui si inseriscono i testi, creando una sorta di colonna sonora su cui si incastrano i rabbiosi cantati/recitati che ricordano in egual misura Gaber e i Massimo Volume senza però l'ironia del primo. Il cantato non si interessa più di tanto delle linee melodiche ma si consuma in una voce che si alza di volume e di grossezza sopra le rumorosità delle chitarre, emblema di quella urgenza espressiva che segnava l'esordio del giovane ferrarese e che trovava terreno fertile in un gruppo di ascoltatori che andava pian piano sempre salendo. Icona il testo di “Piromani si muore”, vera summa della poetica e di quello che gli ascoltatori aspettavano: “E andiamo a vedere le luci/ della centrale della centrale elettrica/ Andiamo a vedere i colori delle ciminiere dall'alto dei nostri elicotteri immaginari/ andiamo a dare fuoco ai tramonti e alle macchine parcheggiate male,/ ad assaltare ancora i cieli e farci sconfiggere e a finire suoi telegiornali,/ foto in bianco e nero delle nostre facce stravolte sui quotidiani locali/ andiamo a vedere i cantieri delle case popolari/ dai finestrini dei treni ad alta velocità/ trasformiamo questa città in un'altra cazzo di città”.

Poi due anni di silenzio. Dopo aver girato in lungo e in largo l'Italia con date live in ogni dove il cantautore, oramai forte di un uditorio sempre maggiore, chiude i battenti. Nessuna data dal vivo, nessuna traccia, nessuna notizia. Nel 2010 inoltrato si sente nuovamente parlare di lui: è in preparazione il nuovo disco. Notizia aspettata ma sempre inattesa, soprattutto per l'importanza che sempre riveste il secondo disco. Dicevamo degli ascoltatori aumentati in maniera esponenziale e quindi c'era la consapevolezza del fatto che, questo nuovo disco, avrebbe potuto segnare un clamoroso tonfo, un tentativo di accontentare tutti. E fu così. Non ci furono innovazioni nel suono ma, ancora peggio, pure i testi sembravano ricicli di quelli del primo disco con un effetto ovviamente del tutto inferiore. Un disco che suonava come gli scarti del primo. Alcune tracce si salvano, nel complesso potrebbe risultare pure sufficiente se lo avessero fatto altri, ma non lui. Dopo il primo disco era questo questo quello che tutti noi temevamo, una caduta nella banalità, nel tentativo di ripresentarsi con le stesse armi e credere di arrivare agli stessi risultati. La musica non reggeva il peso di simili attese.

C'è stata poi quella parentesi poco interessante, inutile (e vorrei sapere chi lo ha ascoltato) rappresentata dall'EP dal nome C'eravamo abbastanza amati, uscito con XL (!). Unica traccia inedita quella omonima, il resto erano sbiadite cover (“Summer on a Solitary Beach”, “Emilia paranoica”, “Dolce amore del Bahia”), un rifacimento di un pezzo del secondo disco e altre chincaglierie di dubbio senso e gusto. L'amore sembrava declinare, rimaneva ancorato solo a quel primo disco, comunque punto fermo, ma oramai, forse troppo insufficiente e pian piano sempre più lontano.

Erano questi i sentimenti che accompagnavano il momento dell'uscita del nuovo album, uscita recente di qualche giorno fa. La notizia, sul momento, non aveva neanche avuto presa su di me, non mi aspettavo nulla e, forse proprio questo, mi ha aiutato verso una visione più lucida del nuovo lavoro. Non starò a fare una recensione (anche di queste ce ne saranno a bizzeffe) ma voglio solo sottolineare il punto fondamentale: ci risiamo, è riscoccata la scintilla. Vasco Brondi è uscito dal circolo vizioso che lo aveva intrappolato dopo il primo disco e se ne esce qui con una formula innovativa per la sua musica, ma che mantiene comunque l'idea archetipica simbolo della sua estetica. I più simpatici hanno individuato questa svolta con la scoperta di Vasco degli accordi maggiori della chitarra e, nello scherzo, non ci sono andati proprio lontani. Il nuovo disco è un lavoro più raffinato e più arioso, composto insieme ad una band composta dall'intellighenzia italiana musicale (Enrico Gabrielli, Rodrigo D'Erasmo, Sebastiano De Gennaro e Giorgio Canali) e ricco di citazioni più o meno colte, più o meno originali (Sonic Youth, Macbeth, CCCP, Gianni Celati e tutta l'Emilia e Maurizio Ponzi). Il titolo e una dichiarazione del nostro cantautore risultano decisive per la comprensione di questo lavoro. Il titolo, “Costellazioni”: si alza lo sguardo verso l'alto, si dimentica le tristezze del mondo basso e ci si proietta in un mondo sconosciuto e lontano, utile per una fuga immaginaria (immaginaria sì, perché poi la realtà torna sempre a bussare, ma è comunque un momento di salvezza dalla fredda e asettica illuminazione dei lampioni). La frase di Vasco è riferita al succo del disco: “canzoni piene di futuro, di illusioni e di storie che finiscono bene, finiscono male o che non finiscono mai”. È questo il bello, provi qualcosa e lo ritrovi nella flessibilità di queste canzoni, ascoltando i movimenti musicali o concentrandoti sul testo, trovando comunque sempre una chiave di volta in volta nuova e trascinante. La duplicità del personaggio Macbeth è riflessa nella natura del disco, figlio tanto della rabbia feroce quanto della dolcezza che sopravviene dopo.

Anche Vasco Brondi ha capito che non poteva più tirare la corda per non rasentare l'imbarazzo ed è riuscito a fare quello che Tomasi di Lampedusa fa dire sul cambiamento dal suo personaggio: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, e il ferrarese c'è riuscito a cambiare le carte in tavola e a mantenere il suo stile. Cambio di vestito che torna a restituire a noi fan, e soprattutto critici, della prima ora, la voglia di ascoltare.

 

Matteo Moca


 
 
 
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