Una sezione curata da Pupi Avati ripercorre quegli anni bolognesi tanto cari a Francesco Molinari Pradelli
L’intérieure è l’asilo dell’arte. Il collezionista è il vero inquilino dell’intérieure (W. Benjamin).
A seconda dell’epoca il collezionista può essere un principe, un borghese, un aristocratico, il vero soggetto del capitalismo, finanche un eccentrico o un «maniaco».
Nel Rinascimento aveva la fisionomia dell’uomo di scienza, del demiurgo tra l’antico e la natura. Il carattere attivo, eroico del collezionista che integra il passato e domina la natura sconosciuta, che attraverso le opere d’arte antiche media tra natura e umanità, aveva trovato nel mito di Prometeo il suo modello culturale.
Il collezionista, dal momento in cui appare sulla scena sociale, come principe, scienziato, o artista, propone un modello, che ha i suoi presupposti nel modo di pensare dell’epoca moderna, dal Quattrocento ai giorni nostri.
La conoscenza si costruisce come uno strumento di controllo, di dominio sulla realtà materiale, sulla natura. Gli oggetti saranno concepiti come involucri, contenitori, espressioni, fino al limite massimo, dell’«anima», del mistero, del divino, della trascendenza, del «perturbamento».
Così il collezionista si muove lungo questa linea per cui manipola realtà inanimate e si fa sopraffare da esse.
Gli oggetti tolti alla loro vita quotidiana assumono un’altra vita nella collezione: cessano di essere beni mondani, diventano pensieri e sentimenti reificati, cose pensanti. Nel collezionismo, attraverso gli oggetti, si costruiscono gerarchie di valori; un nuovo senso viene dato all’ambiente circostante e a se stessi, per poi comunicarlo al resto del mondo.
Con una mostra di cento dipinti della raffinata collezione del celebre direttore d’orchestra Francesco Molinari Pradelli (1911-1996), la più significativa formatasi a Bologna, la Galleria degli Uffizi ha voluto rendere omaggio alla grande personalità del maestro, di fama e d’attività mondiali, che ebbe con Firenze un lungo e fruttuoso rapporto grazie alla sua presenza nel Teatro allora Comunale e nei programmi del Maggio Musicale Fiorentino.
La mostra, curata da Angelo Mazza, prende il titolo “Le Stanze delle Muse. Dipinti barocchi della Collezione di Francesco Molinari Pradelli” (catalogo Giunti), aperta fino all’11 maggio 2014.
A partire dagli anni Cinquanta il maestro coltivò una crescente passione per la pittura, raccogliendo dapprima dipinti dell’Ottocento, quindi rivolgendosi alla pittura barocca spinto da un’attenzione del tutto originale verso il genere della natura morta i cui studi erano allora alle origini, con un’ottica che univa al piacere del possesso e all’apprezzamento estetico il desiderio di conoscenza, sollecitato dalle visite ai musei e alle mostre nelle città in cui la carriera professionale lo portava. (ne sono testimonianza la quantità di libri e riviste specialistiche presenti nell’abitazione, le fotografie, gli appunti delle ricerche storico-artistiche, condotte con la consultazione delle fonti storiografiche, la fitta corrispondenza epistolare e le relazioni con storici dell’arte, da Roberto Longhi a Federico Zeri, da Francesco Arcangeli a Carlo Volpe, da Ferdinando Bologna a Marcel Roethlinsberger, da Erich Schleier a Giuliano Briganti e a Mina Gregori).
La sua predilezione per le “nature morte” in un tempo in cui non erano tanti i loro estimatori (lo sarebbero invece diventati dopo) offre il primo spunto di riflessione sull’indipendenza di giudizio di Molinari Predelli. Lui, ch’era maestro internazionale celebrato, dimostra scegliendo un genere di pittura poco ambito, di non fondare le sue scelte d’amore d’arte sui pareri degli storici e dei critici, né tanto meno di tener conto dell’onda delle mode. Come fa ogni collezionista culturalmente elegante, si disinteressava delle convenzioni. Non attribuendo ai quadri, poi, valore d’investimento, non si curava, di quello che piaceva agli altri, ma cercava di far suo ciò che piaceva a lui; e non rincorreva i nomi eccellenti (che difatti nella raccolta non si trovano). L’aspirazione di lui era quella d’acquisire opere che gli fossero consentanee. N’è venuta una collezione ch’è lo specchio veridico della sua disposizione ideologica, per nulla incline al conformismo.
La collezione di circa duecento quadri che nel corso del tempo rivestirono le pareti della residenza bolognese e quindi della Villa a Marano di Castenaso è stata ammirata dai maggiori storici dell’arte del Novecento, europei e americani. Come la mostra documenta, attraverso la selezione di cento dipinti, il maestro privilegiò rigorosamente la pittura del Seicento e del Settecento documentando le diverse scuole italiane, senza eccezione, con specifica attenzione ai bozzetti e ai modelli. E se prevalenti sono i dipinti di figura della scuola emiliana – con opere di Pietro Faccini, Mastelletta, Guido Cagnacci, Marcantonio Franceschini e soprattutto i fratelli Gandolfi – e di quella napoletana – con capolavori di Luca Giordano, Micco Spadaro, Francesco De Mura, Lorenzo De Caro etc. –, non mancano capolavori di artisti veneti – Palma il Giovane, Alessandro Turchi, Sebastiano Ricci, Giovanni Battista Pittoni –, di artisti liguri e lombardi – Benedetto Stozzi, Bartolomeo Biscanio, Giulio Cesare Procaccini, Carlo Francesco Nuvolone, Fra’ Galgano, Giuseppe Bazzani – e di artisti romani quali Gaspard Dughet, Pier Francesco Mola, Lazzaro Baldi, Paolo Monaldi.
A conferire alla collezione, molto precocemente, una notorietà internazionale furono tuttavia proprio i numerosi dipinti di natura morta di artisti come Jacopo da Empoli, Luca Forte, Giuseppe Recco, Cristoforo Munari, Arcangelo Resani, Carlo Magini, segno di un intuito fuori dal comune che fece del noto direttore d’orchestra un autentico conoscitore della pittura barocca italiana, antesignano dei moderni studi sulla natura morta.
Ad arricchire la mostra è una sezione cinematografica, a cura del regista Pupi Avati – con la collaborazione di Armando Chianese – che evoca la Bologna del tempo del grande maestro e collezionista, che Avati ricorda di avere incontrato nella sua infanzia in più occasioni e con emozione poiché suo padre Angelo Avati era rinomato antiquario e collezionista d’arte in città.
Maria Paola Forlani