Ana Kramar
Il ritorno
Storie migrabonde
Gilgamesh Edizioni, 2014, pp. 144, € 10
Il ritorno... Quante volte nel corso del nostro vivere desideriamo, vorremmo tornare sui nostri passi, alle scelte fatte o a quelle non fatte, in luoghi antichi abbandonati e mai più rivisti o, se rivisti, non riconosciuti? Ana Kramar ha provato sulla sua pelle il dolore di chi deve andarsene via, il malessere del non ritorno e, forse, la delusione insita nel ritorno (sempre che esso possa avvenire). Un sentimento diffuso, che si spande sottile, (in)controllato, non voluto e pur necessario, intriso di disagio e nostalgia, ma anche calma. Ritorno come ricordo che si fa e sfa, sedimenta nel profondo, condiziona. Un'idea che dimora e staziona inquieta; un animale in gabbia cui un distratto guardiano può lasciare aperta la porta.
Il ritorno, un titolo semplice per un libro idealmente complesso, ma, nel contempo, di straordinario impatto emotivo. Ana Kramar un giorno ha lasciato la nativa Bosnia, laddove, nel cuore dell'Europa, ex Jugoslavia, si è consumata una stupida guerra, fatta di atroci episodi – come non ricordare la triste e trista vicenda di Srebrenica? Oltre ottomila esseri umani, ragazzi e adulti, massacrati e seppelliti senza nome in fosse comuni, un vero genocidio e crimine di guerra – e pulizia etnica (scrivesi pulizia, leggasi vergogna in quanto una delle cose più sporche che abbiano mai colpito e travagliato l'umanità, la comune umanità che ci dovrebbe legare e non dividere).
Sono anche Storie migrabonde quelle di Ana: storie dimenticate e riportate a galla, di errabondi senza più patria né terra, ricollocatisi altrove, anime in cerca di ciò che fu e non sarà più. Perché anche il ritorno non restituirà il tolto: il maltolto da quell'aspra faccenda che è la realpolitik, dall'assuefazione all'iniquità, dall'ipocrisia sotterranea e dilagante, dall'indifferenza che amalgama nel peggio. Quell'indifferenza che faceva, e ancora fa, così male alla coscienza del mondo allorché nelle piazze dei mercati o alle file per procacciarsi il cibo piovevano bombe e la mira d'infallibili cecchini appostati sulle alture circostanti mieteva vittime innocenti, civili con la sola colpa di amare, oltre che la propria città, un'idea di pacifica convivenza fra genti, qualsivoglia fosse la loro appartenenza, credo politico o religione. Chi non ricorda amaramente le finestre nere, vuote o rotte, di Sarajevo, ciechi occhi a scrutarci e a scrutare nell'abisso più fondo, e i tram bruciati, relitti nelle strade lungo le quali si doveva correre allo scoperto e a zig-zag per scampare alla morte ottusa e improvvisa? Citiamo una breve, ma fulminante ed emblematica, poesia di Izet Sarajlić, La fortuna alla maniera di Sarajevo: «A Sarajevo/ in questa primavera 1992,/ tutto è possibile;/ fai la coda per comprare il pane/ e ti ritrovi al Servizio Traumatologia/ con una gamba amputata./ E dopo asserisci/ d’aver avuto anche fortuna».
Ciò nonostante, i racconti di Ana, che si svolgano nella sua martoriata terra d'origine o lontano da essa, protagonisti menti e cuori migrabondi, si dipanano con un filo di “quietudine”, da non confondere con passività e supina rassegnazione. Semplicemente l'autrice nella sua maniera piana, e insieme piena e coinvolgente, ha elaborato (e quanto deve essere stato ciò non scevro di sofferenza...) ogni accaduto, autobiografico o storico, per restituirci una riflessione matura, per donarci volti perduti, per chiederci, dopo tanto silenzio da parte nostra (sottolineare nostra), una partecipazione finalmente consapevole.
Non sono gridati i racconti di Ana, nemmeno il primo, L'ultimo ballo (non si ricerca alcun facile effetto splatter né truculenza, e sarebbe stato oltremodo facile!), che si sviluppa nella città già martire: Tutte le notti sento il suono sordo del badile che cozza contro qualche pietra mentre scava nell'umida terra del parco in cui si seppelliscono i cadaveri senza le cerimonie o gli onori dovuti, senza canti funebri e senza lacrime. Mi unisco alla loro silenziosa preghiera e non riesco per lungo tempo a cancellare l'immagine di un mucchio di terra fresca che diventa velocemente una piccola altura, perché la sento respirare, sento come si mette in moto per ricoprire tutto in fretta. Sono periodi lunghi che si susseguono, un ininterrotto monologo interiore dove rivive tutto l'orrore, ma anche la pietà, la paura così come la voglia disperata di normalità, la tragedia, lo straniamento e il desiderio dell'intimità degli affetti e dell'amore.
Sono poi gli occhi di un bambino ad accompagnarci nel racconto Nella lingua di tutte le madri e quelli di un emigrato, uno dei tanti vagabondi costretti fra frontiere e burocrazie che non si danno pena della pena di chi sta in fila per il rinnovo del permesso di soggiorno, in Non uscire mai dalla fila, delicata riflessione su come l'amore non potrà mai essere bandito percorrendo imperscrutabili sentieri, ignoti all'arida Legge. L'incontro è sempre possibile, anche nell'ambito di una lunga, lenta e sfibrante colonna di persone che attendono un timbro, inchiostro per la palingenesi della speranza.
Un amico per Amir ci accompagna nei misteriosi meandri dell'amicizia, che s'afferma al di là di limiti temporali e convenzioni sociali, mentre Il popolo che ride si muove fra ironia e surrealtà, e la figura dell'uomo gigante, con la sua saggezza urlata, si scolpisce davvero nell'immaginario.
Il discorso proibito è un ritratto dall'interno, una sorta di “gruppo di famiglia”... le solite chiacchiere fra bosniaci mentre sorseggiano lentamente il caffè turco e trascorrono le loro giornate parlando dei tempi di pace, quando c'era Tito... quasi uno spaccato antropologico coi modi della narrativa, lieve ed esaustivo.
La canzone è una delle più struggenti narrazioni contenute nel volume: dalla kafana, tipico bar dei Balcani, a una solitaria casa; il rapporto ancestrale e semi-morboso fra una madre e la figlia; una lettera, con l'annuncio e l'attesa di una partenza che risolverà guarendo l'incancrenito. Anche qui, per tornare a crescere, per essere, si dovrà lasciare qualcosa di sé e, può darsi, che il ritorno non sia nemmeno contemplato.
Si trascorre, quindi, dal curiosissimo spunto de Le stanze rosse a Il ritorno, che ha offerto il titolo alla raccolta, così esemplare nella descrizione di eventi piccoli e grandi, l'immane dramma della Storia e la conseguenza dell'esilio quasi sullo sfondo, i fantasmi che aleggiano nel quotidiano, spettri che parrebbero prendere corpo... Ma poi le tornarono in mente i due bicchierini, che aveva trovato sul tavolino di legno quel giorno. Aveva chiesto a tutti, ma nessuno sapeva chi avesse fatto visita a Mirko quel pomeriggio. Però la vecchia vicina, che a causa della sua età molto avanzata soffriva di sclerosi e che perciò non era affidabile, disse ad Angela che le era sembrato di aver intravisto Goran. Non poteva prenderla sul serio, perché anche gli altri le assicurarono che Goran era morto in guerra. Angela non si dava pace, e continuava a rimuginare su chi avesse potuto passare da casa loro quel giorno.
Immaginiamo che dare alla stampa e licenziare al mondo questo libro sia costato non poco ad Ana, ci pare di indovinarne il gran subbuglio interiore. Catartico anche, con ogni probabilità, ma estremamente ricco per valore formale. Una visione diversa, ossia contro qualsiasi banalizzazione, di quei giorni e luoghi, dei loro postumi. Un'opera a puntate compatta e un mosaico di infinite tessere, sfaccettature e riflessi. Il ritorno ha un'importante qualità “filosofica” e antiretorica e, soprattutto, è un libro che, aiutandoci a sapere e conoscere per quanto sia consentito alla nostra imperfetta natura e intelletto, ci rimane, inesorabilmente e felicemente, dentro.
Alberto Figliolia