Amélie Nothomb
La nostalgia felice
Voland, 2014, pp. 128, € 14,00
Natsukashii è la parola giapponese che corrisponde all’italiano nostalgia felice, ma l’interprete che affianca Amélie usa per lei l’aggettivo nostalgic, che è la nostalgia triste, e glielo spiega così: «I suoi lineamenti e la sua voce esprimevano dispiacere, perciò si trattava di una nostalgia triste, che non è una nozione giapponese».
È algos, dolore, quello che prevale nella scrittrice che ritorna dopo sedici anni a Khobe, lei che aveva trascorso la sua prima infanzia in Giappone affidata alle cure di Nisho-san, la tata, che era dovuta partire a cinque anni per seguire il padre, diplomatico, in altre parti del mondo, ma che a vent’anni comunque era di nuovo lì, dove aveva lavorato e aveva vissuto anche una bella storia d’amore.
Scrittrice belga di lingua francese che vive tra Parigi e Bruxelles, ne La nostalgia felice,il suo ventiduesimo romanzo, la Nothomb racconta le tappe del suo ritorno in Giappone nel 2012, ad un anno dal terremoto di Fukushima, ritorno documentato da una troupe televisiva per scelta dell’editore giapponese. Percorre di nuovo i luoghi legati al ricordo, incontra persone che hanno fatto parte della sua vita, tuttavia la realtà della sua infanzia è profondamente cambiata, ne trova a fatica le ultime tracce solo nei canaletti in cui navigarono le barchette di carta ed in una vecchia foto di gruppo ritrovata alla scuola per l’infanzia. È un mondo lontano da lei per abitudini e mentalità, ma che la affascina ancora e non finisce di stupirla.
L’emozione attesa e temuta, la più grande, è l’incontro con la tata ormai ottantenne, una anziana capace di autocontrollo, nel rispetto delle formule di rito davanti alle telecamere – del resto, dice la Nothomb, quando per i giapponesi una emozione è troppo forte, si irrigidiscono- ma a telecamere lontane la donna «diventa spasmodica, mi prende i polsi, poi mi stringe, poi mi riprende i polsi. I suoi occhi tragici parlano una lingua insostenibile». Una donna che conserva ricordi così lontani ma non sa niente dei Fukushima.
È in quell’inferno che si reca la Nothomb con gli operatori, lì la vita si è fermata: «Monconi di case si ergono dal nulla. Come i cadaveri di Pompei, la morte li ha paralizzati. Alcune stanze demolite e metà ci mostrano le loro viscere. Davanti alle vestigia delle porte, file di scarpe raccontano che quelle persone si trovavano a casa loro quando è arrivato lo tsunami».
Consolante per fortuna è lo splendore di Kyoto, terapeutico è il ritmo di Tokio: «Tokio ha il clima migliore del mondo: splendido e secco… Tokio è innanzitutto un ritmo: quello di un’esplosione perfettamente controllata. Quando ci si torna dopo tanto tempo, bisogna isolarsi per qualche secondo in una specie di assenza di gravità per riatterrare nel suo tempo musicale».
L’incontro con il fidanzato dei suoi vent’anni, il ripercorrere le tappe fisiche della loro storia d’amore, se hanno il fascino dell’imbarazzo, confermano comunque che «la bellezza di un dono vissuto a vent’anni non si cancella», perché rimane a impreziosire la vita, quando ormai si sono conosciuti troppi addii, quando la serenità auspicata è il vuoto Zen, che la condurrebbe «all’estasi perpetua, alla gioia esaustiva».
Qualcosa della sua educazione giapponese è senza dubbio rimasta in Amélie Nothomb, lo si scopre nel fluire piano della narrazione, nel prevalere della paratassi, nel dedicare alle manifestazioni affettive una attenzione controllata, nell’evitare ogni ombra di sentimentalismo.
Marisa Cecchetti