A Léger e alla sua straordinaria esperienza nell’ambito dell’avanguardia artistica europea, la Fondazione Musei Civici di Venezia e The Philadelphia Museum of Art, ha dedicano nelle sale di Museo Correr, fino al 2 giugno 2014, una grande mostra – la prima grande esposizione sull’opera del pittore francese che si sia tenuta in Italia – con al centro il tema della rappresentazione della città contemporanea, dal titolo “Léger. La visione della città contemporanea 1910 – 1930” a cura di Anna Vallye con la direzione scientifica di Gabriella Belli e Timothy Rub (Catalogo Skira).
Il percorso che è suddiviso in cinque sezioni (La metropoli prima della grande guerra. Il pittore della città. La Pubblicità. Lo Spettacolo. Lo Spazio), presenta oltre 100 opere di cui più sessanta dell’artista francese, tra cui spicca lo straordinario dipinto La Ville (“La città”).
Dichiara Legér nel 1952: «L’arte astratta è una necessità dell’arte contemporanea. Si riparte da zero» e continua «l’oggetto ha sostituito il soggetto, l’arte astratta è arrivata ad una liberazione totale». Solo ora «si può considerare la figura umana non come un valore sentimentale come un valore plastico». Già molto prima, fra il 1912 e il 1914, quando abbandona lo schema cubista, Léger sceglie una pittura che, attraverso l’uso programmatico della geometria, la ricerca di un linguaggio che ha alla base la netta contrapposizione di forme e colori, lo avvicini all’arte astratta.
Ma la via seguita da Lèger non porta all’astrazione, bensì a una concezione artistica che tiene conto per prima della nuova realtà sociale e urbana, industriale, che si sta rapidamente delineando in tutto l’Occidente. Analizzando il quadro Città del 1919, un’opera che dà l’avvio alla fase più sperimentale della sua produzione, senza chiaroscuro, senza prospettiva, con colori piatti e puri, Léger è riuscito, utilizzando tutti i modi del cubismo sintetico, ma sciogliendoli dall’intelettualismo, a realizzare una tela dove la complessità urtante della vita urbana si ricapitola creativamente, dove le luci artificiali, i colori dei manifesti, le facciate delle case, le scritte delle insegne, lo scorcio del ponte, l’entrata del metrò, e scale, tralicci, ringhiere, figure, si compongono in un incastro dotato di ritmo e di energia rappresentativa. È una pittura ben lontana dalle città di De Chirico. Qui non c’è sogno, non c’è allucinazione.
Si sente che Léger traduce una serie di emozioni. Léger superando la pittura degli impressionisti che lui definisce dal “carattere melodioso”, si avvicina ai “fauves” che nel 1905 espongono al Salon d’Automne ma prende le distanze da quella che considera un’eccessiva spontaneità cromatica. Quindi come tanti cubisti, come Braque e Picasso, si volge alla definitezza di Cézanne. Tornato nel 1918 dalla guerra che lo aveva provato duramente, sente il bisogno di utilizzare quello che aveva sentito in trincea e cioè l’amore per la gente semplice, per la vita moderna e per il mondo del lavoro, trovando, così, la misura di quanto la sua arte avesse esigenza di realismo.
Un’occasione per dimostrarlo gli viene offerta da Le Corbusier, che conosce nel 1920 e che cinque anni dopo gli chiede di eseguire per l’esposizione delle arti creative di Parigi alcune composizioni murali per il padiglione dell’Esprit Nouveau.
Collabora con Delaunay a un progetto dell’architetto R. Mallet-Stevens per il decoro dell’ingresso dell’Ambasciata francese.
Léger sente il bisogno di fare, di sperimentare. La sua non può essere un’opera limitata al cavalletto. Deve spaziare, evolversi verso forme espressive monumentali che avvicinano la pittura all’architettura. Che vanno dalla scultura alla litografia, alla ceramica, al mosaico e al vetro, all’arazzo, allo studio di scenografie e costumi e balletti, al cinema. Dopo aver partecipato con Cendrars al film La Roue di Abel Gance e collaborato a L’Inhumaine di Marcel l’Herbier, nel 1924 realizza Le ballet mécanique, con la fotografia di Man Ray e Dudley Murphy, musiche di George Antheil. All’età di cinquant’anni Léger vuole scoprire l’America, «un paese giovane, senza barba, molto giovane, che si evolve in un mondo anonimo di cifre, di nomi».
Attraversa l’Oceano ed è subito sconvolto dalla verticalità dell’architettura, dai ponti, dalle luci, dai colori dalle insegne pubblicitarie di Broadway. Ma anche in questo caso la sua opera prosegue indipendentemente dalla localizzazione geografica. Resta in primo luogo il risultato di uno stato interiore.
Léger ritiene che l’arte del suo tempo abbia “liberato” il colore, che nelle epoche precedenti era stato vincolato alla rappresentazione degli oggetti. Liberato dalla pittura moderna il colore può invadere le vie. Léger sogna di coreografare intere città dipingendone i muri a tinte accese. Immagina che la pittura, uscendo fuori dalla tela, possa vagare per la metropoli: “Tutti gli insediamenti umani invasi dal colore”. Proprio in questa direzione è chiaro il suo legame con il De Stjil (Neoplasticismo), il movimento fondato nel 1917, insieme a van Doesburg, da Piet Mondrian, amico di Léger fin dai tempi di Montparnasse, cui aderisce anche lo scultore Georges Vantongerloo. Con Léger essi condividono l’idea dall’interazione tra le diverse discipline, della permeabilità tra interno ed esterno, del rapporto tra spazio e colore.
Tra il 1924 e 1926, Léger crea una serie di “dipinti murali” astratti ispirati a tutto ciò. Non più “quadri da cavalletto”, sono opere che intendono interagire con l’ambiente circostante. «Tra tutti i pittori moderni», avrebbe detto Le Corbusier, Legér è «l’unico i cui dipinti richiedono una nuova architettura».
Maria Paola Forlani