Allora è cosa fatta: Matteo Renzi ieri, durante la Direzione del PD, ha ufficializzato la fine del governo Letta e l’avvento prossimo del suo, di governo, tra l’altro con una scadenza prevista addirittura per il 2018. Con un documento messo ai voti, e che ha prodotto la stragrande maggioranza di 136 adesioni, 16 no e 2 astenuti. Alcune domande sorgono spontanee, anche se Renzi raccomanda pure – bontà sua – di non farsele, di non stare a cavillare su tutti i momenti andati in scena in queste ultime settimane.
E le domande, solo in apparenza tignose (in realtà servono a dare un’idea di colui che andrà a guidare le sorti italiane) sono le seguenti: perché continuare ad affermare in tutte le interviste che mai darò spallate al governo Letta; il governo durerà per tutto il 2014; in tanti mi dicono, sbagliando, che vorrei fare le scarpe a Letta; mai più giochini con gli Italiani; io non sono contro Letta: io tifo Letta; mai un governo con Berlusconi (e Alfano?); mai a Palazzo Chigi senza voto elettorale ecc.
Premesso il dietro-front, senza scandali apparenti, dell’ennesimo uomo in politica che promette una cosa e poi ne fa un’altra, è rilevante oppure no decretare la fine di un governo a capo del quale c’è un uomo del proprio partito sulla base della sola, autoreferenziale, convinzione che “io potrò fare meglio”? Perché, anche ad un primo esame della questione, ieri appariva evidente che null’altro fosse cambiato! Non le maggioranze in campo (con Sel che riafferma con decisione il proprio diniego a qualsiasi ingresso in un governo col centrodestra e M5S che considera tutto quanto capitato una bagarre interna al PD…), non l’annuncio di programmi stratosferici che illudano qualcuno di un improvvisa e repentina ripresa del sistema Italia, a meno di voler credere – anche l’elettorato del PD – agli illusionisti e ai venditori di ricette magiche. L’ombra, quindi, di una sfiducia per una questione personale (parole di Letta, riportate oggi su Repubblica) – ad essere sfiduciato, infatti, non è stato il programma – di un tranello orchestrato da Renzi, che avrebbe, da un lato prospettato il rimpasto coi suoi a un governo comunque di Letta, dall’altro determinato quella lunga attesa poi rimproverata come inerzia al governo lettiano.
Nessuno stile, quindi, nessuna attenzione alla persona-Letta, al collega di partito, il quale, invece, aspettava l’esito della Direzione davanti alla TV, senza andare al Nazareno, chiedendo a tutti di abbassare i toni ed evitare tensioni, senza dare l’immagine di un premier che va contro al suo partito. E poi lasciandosi sfuggire una frase desolata: tanto che a gettarmi via è il PD sarà comunque chiaro a tutti li Italiani. Solo Civati in direzione, nel suo discorso, mette l’accento su questo: altri metodi, avrebbe auspicato, per risolvere la questione, più rispetto per le persone, addirittura cita il poeta: “il modo ancor m’offende”… E infatti i civatiani saranno i soli 16 contrari…
Non sarà che ora Renzi è molto più prossimo alla figura tanto da lui deprecata del politico della casta? Uno che è disposto a dare quella famosa spallata, tante volte negata, a scegliere la poltrona anziché il bene comune. Insomma: una buona partenza, a detta di molti, da segretario che si riprometteva di pungolare il governo e assisterlo nel cambiamento, che lanciava le riforme e predisponeva – seppure fra tanti malumori – quella tanto necessaria riforma elettorale, il tutto seguito però da una corsa realizzata a furia di gomitate e sgambetti. Una predisposizione a comandare, come fece notare Cuperlo, piuttosto che a dirigere.
E poi, perché non aspettare il passaggio di quelle riforme? Perché non riconoscere la loro tanto vitale importanza per la nostra democrazia e in nome di questa possibilità, tante volte decantata come unica e irripetibile, attendere il termine del lavoro di Letta fino a tutto il 2014 per poi andare, allora sì, alle elezioni e ad elezioni ben fatte? Lasciar vivere il governo Letta, comprendendo in quali condizioni è nato e ha agito (la si era richiesta, questa comprensione, all’elettorato del PD che faticava a mandar giù il rospo delle larghe intese...). Quel governo che, pareva in principio, sarebbe stato la vergogna dell’inciucio e che invece si è rivelato capace di giocare un ruolo nel dissesto del PDL e poi proseguire più forte.
L’immagine di Renzi, oggi, è deteriorata. Nella forma, nel modo in cui ha gestito l’avvicendamento, e nella sostanza, che di politico – inteso nel termine più alto, l’unico che interessa al troppe volte citato bene comune – ha ben poco.
E intanto il Paese si ritrova il terzo Presidente del Consiglio nominato fuori dal Parlamento, invece che eletto. E chi si riconosce nel PD si scopre sfuggire ancora un po’ da sotto i piedi quella sensibilità democratica, quel senso dell’agire bene della politica, in cui ci si ostina a credere, ma che da ieri è ancora, inesorabilmente, più lontano.
Annagloria Del Piano