Alpharita Costantia “Rita” Marley, moglie legittima di Bob, sembra a prima vista una bonaria signora di mezz’età, che si muove rassicurante nelle sue sgargianti vesti di foggia africana.
In verità è la Managing Director inflessibile della Bob Marley Foundation, un impero che controlla una casa discografica, la Tuff Gong, in Marcus Garvey Drive a Kingston, un Museo in Hope Road, proprietà immobiliari in Giamaica e negli Stati Uniti, e soprattutto detiene i diritti a livello globale del merchandise che riguarda il fu marito, cioè l’intera riproduzione planetaria dell’immagine di Bob su magliette, accendini e qualsiasi tipo di souvenir esistente. Dal venditore ambulante locale, alla catena di negozi retail a New York, che vendono prodotti col faccione del cantante, la Fondazione non si fa scappare un centesimo, ben assistita da équipe di legali sguinzagliati ovunque. Un business da centinaia di milioni di dollari, americani ovviamente. L’immagine di Robert Nesta Marley è, insieme a quella del “Che” Guevara, dalla celeberrima foto del cubano Alberto Korda, la più riprodotta al mondo; impossibile dire quale delle due abbia diritto al podio più alto, ma poco importa.
Ironicamente, per accentuare la similitudine tra le due icone planetarie, Rita è nata a Santiago di Cuba. L’anno non ve lo dico, è maleducazione nei confronti delle signore.
A TT non amano Rita, perché da giovane, viveva a Upper Trench Town, che è leggermente meglio della parte bassa del quartiere, dove stavano Bob e la madre.
La puzzetta sotto il naso della ragazza, che già cantava nel gruppo delle Soulettes (diventate poi I-Three, con Marcia Griffith e Judy Mowatt), è accantonata, quando capisce che quel giovanotto straccione che strimpella con altri pezzenti, potrebbe diventare una miniera d’oro.
E così è stato, grande fiuto per davvero.
Quando un giorno di maggio del 2002, mi arriva una telefonata dalla segretaria della signora Marley da Hope Road, il mio business di produttore di cartoline è al top nell’isola, e conosciuto anche ad Aruba e Trinidad&Tobago. Dopo il mio tirocinio da paparazzo dei divi del reggae, ho intuito che è meglio percorrere itinerari alternativi.
La produzione della concorrenza è, per fortuna, pietosa, con immagini vecchie e una grafica obsoleta, risalente al periodo coloniale. Ci vogliono pochi anni per farla fuori, ora gli unici che mi fanno guerra per davvero, sono gli americani di Waves, entrati sul mercato con ampio dispendio di mezzi tecnici, espositori nuovi di zecca, e un bel numero di rappresentanti sparsi lungo l’isola. Però i cavalli si vedono all’arrivo, e questa regola si applica alla perfezione, soprattutto ai Caraibi.
Torniamo alla fatidica chiamata: la ragazza mi annuncia che la Signora Marley ha sentito parlare del mio prodotto, e sarebbe disposta a vedermi negli uffici della Fondazione il giorno successivo… Apriti cielo!!
Scenario: primo piano di 56 Hope Road (La Strada della Speranza). Museo di Bob Marley.
Sito sullo stradone centrale che taglia in due Uptown Kingston, prima di arrivare a Liguanea, il quartiere che precede le Università della capitale.
È la vecchia casa di Bob Marley, dopo i primi successi, e il trasferimento da Trench Town. Oggi è stata trasformata in un museo. Il nome della strada è azzeccato: difatti davanti ai Sacri Cancelli, si trascinano dalle campagne decine di aspiranti artisti morti di fame, che quando riescono a racimolare i soldi per il biglietto del bus al fine di arrivare quaggiù, spesso è di sola andata. Resteranno giorni, settimane, mesi sperando di strappare un’udienza a Junior Gong (Damian Marley, uno dei figli, quello che oggi va di moda) o alla Regina Madre, Rita.
Vivranno per le strade, camperanno di elemosina, magari rovistando nei cassonetti, tutto pur di avere una chance di successo. Mai dire mai.
I cancelli si spalancano, quando arrivano i torpedoni dei turisti che vogliono vivere l’emozione di respirare la stessa aria che inalava il Caro Estinto, e vedere con i propri occhi le sue reliquie, magari, con un po’ di fortuna, sbirciare anche la preziosa progenie.
Una guida narra, con l’entusiasmo di un impiegato del casello autostradale quando deve timbrarti il biglietto, le fasi della vita dell’artista, soffermandosi davanti al famoso muro dove ancora sono evidenti i buchi dei proiettili dopo il fallito attentato.
Poi tutti dentro una saletta a vedere vecchi spezzoni di film, e per finire, in fila a comprare souvenir coperti dal copyright… du palle!!
Quando arrivo io, i gruppi se ne sono già andati. Mi parcheggiano su una sedia, in attesa che arrivi Sua Maestà. Mi fa compagnia la stessa ragazza che mi aveva accompagnato in precedenza alla Tuff Gong, per scegliere alcune immagini del cantante da utilizzare per la stampa di cartoline. Dopo solo un’ora di attesa, ecco che arriva Mama Marley.
È appena tornata da Miami, dimostra 10 anni di meno rispetto la sua età anagrafica, sprizza salute da tutti i pori, è allegra… e poi dicono che i soldi non fanno la felicità!
Mi scruta incuriosita, sembro un turista, invece le hanno riferito che sono uno yardi nomignolo che si usa per definire gli stranieri che vivono in Giamaica, far away però da essere considerati residenti effettivi; e che produco cartoline.
In effetti, è l’unico genere che ancora i Marley non trattano, nel loro mercato globale che sfrutta l’immagine del defunto, per cui sono ritenuto degno di avere un colloquio con la Boss.
Ora il grande rebus che bisogna risolvere ai fini di definire la trattativa è solo uno: ma li sordi chi li caccia ? Nella policy commerciale della Sacra Famiglia, è assolutamente forbidden farlo per primi, sempre molto meglio dare la precedenza al prossimo.
Il punto cruciale è capire quanto sarà la provvigione da destinare alla Fondazione.
Saliamo una ripida scaletta che ci porta al patio superiore, sopra il gift shop.
Rita accede a una saletta in stile orientale, con un bel parquet rosso sul pavimento e drappi pregiati che scendono dalle pareti, tappeti persiani ovunque.
Ci accomodiamo su due poltrone alla turca, con braccioli a spirale.
Noto con curiosità e un pizzico di apprensione una sorta di tabernacolo, e dei vasetti stretti e vuoti. Coricato sul fianco, c’è un cartoccio bello lungo. Di fronte una gigantografia di Bob Marley, contornata da candeline. Vabbè, apriamo le danze.
Io: “Sarebbe per me un grande onore, Sig.ra Marley, avere il Suo consenso per stampare una serie di cartoline con le immagini di Suo marito… sono sempre stato un Suo grande ammiratore (del marito, intendo)…”
Rita: “Well, caro il mio amico italiano, Lei è in una nutrita compagnia, riguardo a ciò… per il resto, no problem, quante cartoline vorrebbe stampare?”
Io: “Beh, tanto per cominciare e tastare il terreno, pensavo a due o tremila pezzi…”
A questo punto il sorriso a 64 denti di Alpharita, si blocca, come in preda a una paresi facciale...
Mi guata con il sopracciglio inarcato, si alza e si dirige con passo marcato, accentuato dai listoni del parquet, verso il tabernacolo. Sfila dal cartoccio un’asticella, e finalmente capisco che sono delle bacchette d’incenso… la donna ne accende una, e la infila in uno dei vasetti vuoti, poi si rimette a sedere davanti a me… un buon odore d’incenso si diffonde nell’aria.
Rita: “Carissimo amico italiano, Bob Marley Foundation non è interessata agli spiccioli del business, noi abbiamo ampie prospettive e una visione duratura del mercato, per cui se concediamo a qualcuno l’onore di usare le immagini del nostro caro e mai rimpianto abbastanza Bob, è unicamente davanti alla possibilità to make good money”.
Io: “Ma io intendevo 3.000 per immagine, per almeno 6/7 foto, fanno circa 20.000 pezzi…”
Rita mi guata di nuovo con lo stesso sopracciglio accigliato, si alza, di nuovo marcando il passo sul parquet traballante con maggiore impeto stavolta, arriva davanti alla foto del caro estinto, sfila un’altra bacchetta, l’accende e si rimette a sedere davanti a me.
Rita: “Giusto per venirle incontro, acconsento a 5.000 pezzi per immagine, sono 35.000 in tutto, caro il mio amico italiano… A condizione di ristampare una quantità maggiore entro l’anno corrente… A quanto le vende le cartoline al pubblico?”
Io: “Cara signora, noi non serviamo il pubblico, forniamo i negozi che a loro volta vendono al pubblico… le proponiamo a 30 centesimi di dollaro l’una…”
Altro cipiglio feroce, altra levata, altra bacchetta accesa davanti alla foto, ritorno sulla sedia.
(Capisco solo ora, che la donna usa questo espediente per calmarsi, e mettere a disagio il suo interlocutore… non ama essere contraddetta dal suo filo logico, soprattutto da una nullità come il sottoscritto. E vabbè…)
Rita: “Fanno 10.500 dollari di fatturato, normalmente noi non ci scomodiamo per delle somme così ridicole (In inglese si usa dire peanuts, noccioline), ma stavolta farò un'eccezione per Lei… La nostra commissione è del 30%...”
Io: “Ma cara signora, è una cifra enorme, abbiamo dei costi di produzione da ammortizzare, il trasporto dall’Italia, lo sdoganamento, io pensavo a un 10%...”
Nuova levata, stavolta il disprezzo è tale che non mi degna di uno sguardo, incenso, sedia.
Rita: “25%, non un centesimo di meno (Maledetto straccione pallido)”.
Io: “Sono addolorato, posso arrivare al massimo al 15%”.
Disprezzo, levata, incenso, sedia. L’odore è talmente forte ora, che mi dà allo stomaco, mi viene voglia di vomitare, ma il pensiero di quello che mi potrebbe capitare se lordassi i preziosi tappeti, con quei molossi enormi che ho visto ringhiare all’entrata, mi terrorizza e tengo duro…
Rita: “Sono veramente disgustata di dover mercanteggiare con lei sulla pelle del mio inestimabile marito e padre devoto, 20% e basta, non voglio sentire storie…”
Io: “Va bene signora, mi scusi per davvero, è una somma enorme, ma voglio veramente fare business con Lei, accetto. Come pagamento va bene un acconto del 30% all’inizio della stampa, e il saldo a fine consegne?”
Questa volta la sua sedia quasi si schianta sul terreno, rossa in viso, tabernacolo, incenso, a sedere di nuovo; il colore dell’incarnato, tipo mattone refrattario dopo aver cotto cento pizze.
Rita: “Senti nanerottolo mangiaspaghetti, se sei venuto fin qua a prendermi per il culo, hai sbagliato indirizzo, non stai rifilando specchietti ai selvaggi in cambio di oro e diamanti, quei tempi sono belli che finiti, TU PAGHI TUTTO SULL’UNGHIA ANTICIPATO PRIMA DI STAMPARE, E POI SE LE VENDI O MENO SONO CAZZI TUOI, HAI CAPITO NASONE BIANCO?”
Io: “Mi sembra di intuire di averla leggermente contrariata (vorrei uscire vivo da qui, senza essere sbranato dai molossi di sotto, per favoreee…) per cui, in nome della nostra nuova amicizia, accetto di cuore e La ringrazio della comprensione… (come è umana Leeiii!!)”.
Rita: “Un'ultima cosa, prima di concludere… il nostro contratto, alle clausole 7 e 8, prevede che in caso di produzione estera, un nostro incaricato debba recarsi sul posto, seguire tutte le fasi della produzione, per accertarsi che siano rispettati i nostri codici estetici. Alla clausola 9, Lei è tenuto a pagare spese di vitto ed alloggio, oltre ovviamente al biglietto aereo A/R… di solito prenotiamo noi l’albergo, credo che l’Hilton a Roma sia il più indicato… prego, firmi qui”.
La guardo con il sopracciglio inarcato, il labbro tremolante del vigliacco, mi alzo, vado verso il tabernacolo incensato, sfilo la bacchetta, è l’ultima, l’accendo davanti alla Sacra Immagine, e mi rimetto a sedere. I braccioli a spirale, sembrano avvolgermi per stritolarmi.
Io: “Cara Signora, credo proprio che debba prendermi un po’ di tempo per pensarci sopra…”
Le bacchette sono finite.
E così il nostro meeting.
Non saprò mai se ho perso allora la grande occasione della mia vita o, al contrario, ho semplicemente evitato di infilare il collo nel nodo scorsoio del boia.
Di una cosa sono sicuro: da quel giorno non ho mai più potuto sopportare l’odore dell’incenso, e fino ad ora non ho più messo piede dentro una chiesa, o un tempio buddista.
Credo proprio che l’Inferno mi attenda… dress lightweight!*
Flavio Bacchetta, Jamaica
(da Facci un salto, 8 dicembre 2013)
* Vesti leggero!
2 – Fine