Roma, 25 Aprile 1922
Cara Mary, benché il mio desiderio di scriverle sia costante non trovo al solito in tutte le mie giornate mai un momento abbastanza riposato per farlo. Oggi per la prima volta, dopo un lungo e noioso periodo di pioggia e tempo cattivo, rivediamo il sole romano. È una giornata come ce ne sono qualche volta a San Remo, quando il vento soffia dall’Ovest, schiarendo il cielo, e Nettuno si diverte a turbare il mare senza nessun proposito, anzi per monelleria. Il tiepore di questa giornata è incantevole. Io sono qui alla Ronda solo. Guardo i ragazzi che giocano sotto la mia finestra intorno all’obelisco egiziano, i panni che sventolano sotto le terrazze degli alberghi di Piazza di Spagna, anche questi sotto i miei occhi, gli alberi rinverditi del viale del Pincio, Villa Medici, con la sua densa massa di pini papali, e tutto ciò non avrebbe scopo se io non mi decidessi a scrivere a lei. Purtroppo saranno poche parole perché sono molto stanco di una nottata passata lavorando e non ho qui sul tavolo sigarette, né Bice a portata di mano che me le vada a comprare. Che importa del resto scrivere quando ci si conosce così bene come ci conosciamo noi? È giusto che lei mi assicuri di quando in quando di non essersi dimenticata di me, che sono, fui e sarò sempre il suo vecchio amico, perché alla sua età i giorni valgono per anni e i mesi per secoli, ma come vuole che io possa mutarmi? Comunque lasciamo andare questi discorsi.
Vidi, come le dissi la “signorina d’italiano” ma dopo quel giorno non l’ho più vista. Credo che dovesse partire la sera stessa per Firenze, dove si proponeva di rimanere più a lungo possibile; così si concepisce di fare il proprio lavoro in Italia. Era venuta a Roma per un concorso, giurava di aver fatto il più bel lavoro, ed è quindi sicura di poter entrare in ruolo e andarsene a San Remo. Non so se questo le farà piacere o no. Io ho inteso di comunicarglielo.
Fuori di ciò non avrei altro da comunicarle. Anzi mi sbaglio, c’è questo. Domani, giovedì diamo alla Ronda il nostro primo thè a un gruppo limitatissimo di invitati, fra cui una famosissima ballerina spagnola, “Nereide”, di passaggio per Roma. Si figuri che Saffi è felicissimo e che è lui che organizza tutto. Io ho avuto l’idea. Gliene saprò dire qualcosa anche se non interverrà un qualche croniquer mondano della capitale; nel qual caso leggerà il racconto “ecco il mondo vuoto e tondo”. Io mi perdo a dirle queste sciocchezzuole nell’illusione di riuscirle divertente ma so bene che è un’illusione vana. Lei, a sedici anni, la sa, in tante cose più lunga di me che ne ho trentacinque (li finisco il 1° di maggio cerchi di ricordarsene). Ma sa cosa le dico? La bravura non sta nel capire ma nel sentire. E andando avanti lei capirà sempre meno e sentirà sempre di più. Questo vuol dire crescere e finalmente invecchiare ma non parliamo di melanconia.
Questa lettera sbandata vorrebbe finire con un elenco di saluti da distribuirsi a uno a uno. Un saluto a Bice, uno alla mamma, uno ad Achille, eccetera, eccetera. In questi eccetera sono compresi i signori De Rossi e la signorina Venerando. Se poi volesse essere così gentile da dare un bacio al gattino, non so dirle quanto mi farebbe piacere. Sa che io sono molto tenero con quelle dolci e affettuose bestiole. Mi dia buone notizie di lei, sia sempre lieta e diritta, non pianga, non faccia storie. Io capiterò a San Remo forse nel settembre di quest’anno. Se non ci siete vi verrò a trovare ad Ormea. L’estate la passerò a Roma, dove conto di lavorare ad alta tensione.
Per oggi, cara Mary, la saluto e la prego di conservarsi sempre come io l’ho conosciuta.
Suo affezionatissimo
V. Cardarelli
9 – segue