L’uomo Bartali
di Franco Patruno
Ci sono dei miti che non tramontano e se la narrazione che li descrive a volte si colora di leggenda, allora significa che hanno non solo simbolico significato, ma corrispondono a personaggi storici legati a profonde aspirazioni del cuore umano. È il caso di Gino Bartali, l’intramontabile eroe del ciclismo che, a dispetto di molti della sua generazione di cui purtroppo si fatica a ricordare il nome, è ancora ben vivo nella coscienza di chi per lui tifava nei due decenni dei grandi successi al Giro e al Tour, ma anche in quella di chi non ha potuto seguirne le imprese. Lo ha dimostrato il grande consenso di pubblico che ha assistito al film per la televisione di Alberto Negrin su di lui. «Questo è il Bartali che noi abbiamo voluto raccontare e per farlo ci siamo documentati fino allo spasimo andando a leggere ogni più piccola cronaca, migliaia di pagine di giornali, rotocalchi, libri, memorie orali, testimonianze di chi lo ha conosciuto (…)». Il regista parlando al plurale intende coinvolti nella ricerca i due sceneggiatori G. Governi e A. Porporati. È evidente che nel momento stesso in cui si profilava la possibilità di una prima scaletta di idee, si pensasse anche all’attore che avrebbe potuto interpretare il ruolo del campione toscano. La scelta è caduta su Pierfrancesco Favino, che già avevo conosciuto in diversi film e soprattutto ne Le chiavi di casa di Amelio, ampiamente recensito su queste pagine. Certo, da personaggi significativi ma prevalentemente comprimari, al “tutto campo” della pellicola su Bartali il passaggio non è da poco e ha costretto Pierfrancesco ad una fatica introspettiva ed atletica da “Actor’s Studio”: sei mesi di allenamenti sotto la supervisione di un medico sportivo ed un lavoro diuturno sulla “faccia”, ma non nel senso del calco imitativo come nel caso di Simone Gandolfo che doveva misurarsi con la precedente splendida interpretazione di Castellitto nel film su Fausto Coppi, il “campionissimo”. Favino, ed anche Gandolfo, hanno superato la prova ed il primo, apparentemente troppo bloccato da un’icona facciale non molto mobile, è riuscito ad interiorizzare i passaggi psicologici del “Ginaccio”, in modo particolare nelle fasi di avvertito orgoglio antifascista in nome di un cattolicesimo sincero e non propenso alle mezze misure. Ma è nella seconda parte del film che, aiutati da scene di gare ottimamente costruite, anche la dimensione atletica, tutt’altro che indifferente per il personaggio Bartali, aiuta lo sceneggiato ad acquistare una scioltezza ed una continuità che non ho trovato ugualmente nella prima parte. Parlo di snellezza di racconto cinematografico, quando cioè il regista è meno preoccupato di assiepare tutto il materiale di cronaca e di storia che ora è scelto per la sceneggiatura e può quindi svolgere la narrazione intensificando alcuni aspetti senza i quali il personaggio rimarrebbe non risolto. L’opzione di Negrin, che aveva dato un’ottima prova registica soprattutto con lo sceneggiato su Perlasca, è stata quella di una veridicità non messa in scena in modo distanziato e freddo, ma giocata su un sentimento basato sui valori etici. E Favino, ma pure Nicole Grimaudo nei panni della moglie Adriana, si è reso partecipe di questa scelta complessiva senza forzare i dati che pur provenivano da una personalità come Bartali. Il ciclismo come vocazione emerge come tema di fondo, anche se l’ambientazione scenografica abbastanza puntuale potrebbe apparire come desiderio di descrizione generale di una situazione storica come quella del fascismo, della guerra e della ricostruzione postbellica che emerge con una certa efficacia. Ma è una collocazione ambientale in funzione della descrizione dell’intramontabile ciclista. La divisione tra bartaliani e coppiani è condivisa dall’uno e dall’altro dei campioni, ma soprattutto è umore di folla con incidenze storiche impensabili oggi, come nel caso dell’insperata maglia gialla al Tour de France che rappacificò glia animi nel 1948 dopo l’attentato a Togliatti. Dato non solo documentabile dalle cronache giornalistiche d’allora, ma pure dalle nostre personali testimonianze. Non pochi di noi, infatti, hanno sofferto l’incubo di quelle giornate e il toccar con mano la possibilità, in gran parte già presente nell’ira di quei momenti, di una possibile guerra civile dopo il già devastante panorama dei disastri del dopoguerra. Il ciclismo aveva allora una presa sulle masse, sia culturalizzate che non, impensabile se confrontato con la debole passione odierna. Si deve dire che gran merito di questa adesione estremamente accesa era dovuta in soprattutto ai grandi ciclisti: prima Girardengo e Binda, in seguito Bartali, Coppi e, con minore intensità, il grande passista Magni. La dialettica tra il toscanaccio e il piemontese è ottimamente descritta nel film di Negrin, anche nei passaggi e conflitti psicologici che hanno caratterizzato un’amicizia ferrea pur nella polarità di due temperamenti che potevano evolversi in modo meno positivo, cioè nel senso di un’ostilità insanabile. Molto si è parlato della cattolicità di Bartali che, come molti ricorderanno, non dismetteva mai il distintivo dell’Azione Cattolica. Ma a poco conterebbe un simbolo se il portatore non vivesse ciò che tale icona suppone dal punto di vista etico. In base alla documentazione di cui Negrin era in possesso, risulta da molte testimonianze che il Ginaccio del “…l’è tutto da rifare!” era di estrema coerenza: se Dio è al primo posto, nessun altra adorazione o glorificazione è possibile e il braccio teso magnificando un uomo è una vera e propria sfida alla propria fede. Su questo Bartali non ha ceduto ed il film di Negrin lo ha affrontato con coraggio, visti i tristissimi revivals neo nazisti che ci è dato oggi costatare. Un altro aspetto della sua testimonianza cristiana risulta indicativo: l’amicizia e la delicatezza vissute in modo non moralistico o in base ad una forma di attivismo missionario che potrebbe essere offensiva della libertà altrui. In altre parole: tutti sapevano che Bartali aveva un acuto senso della famiglia e dire che questo è un fatto tradizionale significa affermare che questa tradizione è straordinariamente innovativa e non di bieca conservazione, come in diversi contesti postmoderni, con retorica grondante, si sostiene. Questa fede nel nucleo di relazioni primarie non ha impedito al ciclista toscano di avere un cuore grande nei confronti del conflitto che un altro cattolico, Fausto Coppi, stava vivendo e che diventerà terribile pasto pubblicistico alla metà degli anni Cinquanta. Negrin affronta questo passaggio evidenziando la delicatezza dei tratti ed un senso della speranza intesa come fuga dalla depressione e da una mortale malinconia. Speranza nella vita, quindi, ma ancor più apertura ad un orizzonte che comporta un abbraccio trascendente, quello della Croce. Queste constatazioni significano un forzare i dati del film? Certo, se si pensa alla sequenza del dialogo tra i due campioni su questa angustia, la riflessione sulla carità forse è eccessiva; ma mi sembra invece che proprio in quella fase cinematografica, fortunatamente non gridata ed eclatante, la brevità s’è fatta sintesi lasciata al silenzio e la descrizione cauta e personalizzata lascia supporre una leggerezza di accenti che il regista ha raccolto con pudore.
Il contesto ambientale, come s’è detto, è sufficientemente supportato da una scenografia e da scelte locazionali di una verità che non sconfina nell’effetto “cartolina”, come purtroppo è accaduto anche al film su Don Bosco. La rappresentazione del mondo ciclistico di allora, anche per i non specialisti di questo sport, mi sembra ben riuscito e pure la figura di Binda come direttore sportivo della squadra nazionale al Tour de France, esce più volte dalla penombra e si presenta come acuta osservazione anche di ciò che ancora non si comprende.
Malgrado il plauso che si deve ad Ennio Morricone per le composizioni ormai storicizzate della nostra storia del cinema, constato una ridondanza fastidiosa nell’accompagnamento musicale del film di Negrin. Detta schiettamente: perché ogni immagine deve essere affettivamente declinata da una nenia che dovrebbe supportarla? Troppe volte nella pellicola si tende a non valutare l’importanza del silenzio e sicuramente la scusa dell’aggrado d’utenza non potrà mai significare che gli spettatori debbano essere sempre ad uno stadio infantile. Anche in altri contesti televisivi questo si è ripetuto e credo che si debba avere il coraggio di un’armonizzazione tra i due linguaggi in modo tale che il secondo, che è purtroppo un tutt’uno con l’opera, non detti la propria legge, cioè una lacrimazione che inverte il sentimento con il sentimentalismo.