il letto per l’amore/ è un campo di battaglia/ del mistero:/ vi dura la pace/ nella guerra e nel conflitto,/ più si è morti/ più si vive meglio/ da risorti/ e, colpendo,/ognuno/ vuole essere trafitto.
(Paolo Ruffilli, Affari di cuore)
I figli con il nome dei nonni
I morti, il parlar con loro, il dialogo con l’aldilà, vedere nella scomparsa la fine della giovinezza, la nostalgia, i primi sogni; così inizia il film di Marco Bellocchio Il diavolo in corpo, in una aula scolastica durante l’ora d’italiano in una giornata di luce che, dalla grande finestra illumina le tegole del tetto… poco più in là. Una ragazza di colore, bella, con un succinto abito bianco ha deciso di farla finita, da un balcone l’incrociarsi dello sguardo di Giulia e Andrea. In questa architettura dove ogni spazio sembra presagirne un altro in un sottile gioco d’incastri e incatenamenti e solitudini nasce la passione dei giovani protagonisti. Un prete, …la vita è solo di Dio… riuscirà a distogliere dal suicidio la ragazza che in preda ad un linguaggio disarticolato e convulsivo sembra dai gesti voler aver ancora percezione del suo corpo che continua a toccare fremente come se recitasse un rituale magico (forse il presagio di aver già in mano il mondo dei morti?). Un mazzo di fiori freschi sul luogo dove è stato ucciso il padre di Giulia è l’unica sosta prima dell’aula del tribunale dove il fidanzato, complice nell’assassinio, si è pentito e sarà presto libero. L’immagine replica nello stesso ordine i volti che avevamo visto, Giulia, sua madre e sua suocera nella fila davanti durante il processo… come ad un altro balcone… come affacciate ad un’altra vita.
Stavolta discosto c’è anche Andrea che ha seguito Giulia uscendo di soppiatto dalla finestra dell’aula. In verità si può entrare o uscire dalla vita anche in modalità desuete, come avrà a dire poi il professore d’italiano, e incontrare la passione in uno sguardo dimentico di un mondo che sembra stabilire ogni giorno il percorso da seguire. “Voglio vivere come tutti gli altri, come un uomo normale, festeggiando i giorni di festa e dare ai figli il nome dei nonni”. Sarà l’unico e ultimo colloquio in carcere tra Giulia e il fidanzato mentre lei fatica a dire che non è cambiato nulla tra loro, che sarà una buona moglie mentre mostra le varie fedi che ha scelto di mostragli in vista del matrimonio. Ad Andrea aspetta invece “un’ascesa” faticosa per raggiungere Giulia e piove e persino i baci sono bagnati e il plenilunio lo segue, lo spia durante la pericolosa scalata. Non mi sento di asserire che il paesaggio sia complice dei personaggi. Nella fotografia il plenilunio è visualizzato rigorosamente a sinistra e sembra che la sua luce illumini solo parzialmente Andrea. E la casa, la bella casa di Giulia, dono del fidanzato per le nozze, è un’ architettura invasa da una luce troppo forte per non svelare a poco a poco la solitudine dei personaggi; come nelle ampie proiezioni di Hopper in cui il silenzio è l’unica voce e il corpo, un elemento dal quale si dirama il contrasto tra levigatezza e sofferenza, irrepetibilità e caducità. Anche in Bellocchio l’immagine è quasi sempre inquadrata, unica protagonista anche in un dialogo o in un contesto come l’aula di un tribunale. Il focus dell’attenzione del regista è il corpo nella travolgente “estasi” di possessione, di trasgressione, di momento strappato all’ordinarietà; esso vive nella gestualità travolgente di un amplesso che sembra dis-connettere dalla realtà. Ma è proprio la realtà come ordinarietà in discussione nell’opera del maestro Marco Bellocchio. E che l’amore trasformi la realtà è tema indagato spesso dal regista. “Come sta Giulia?” chiede il padre di Andrea, psicanalista, alla futura suocera. “Bene, sta bene, è innamorata, Giulia.” Un’affermazione che sembra dirimere la dicotomia tra “la vita è sempre di Dio” e “la vita è una prova a rincorrere un plenilunio nel corpo di chi ami”. Andrea sosterrà le prove di maturità. Al presidente di commissione risponderà senza empatia che non è ciellino, né religioso, né marxista ma proprio in quel “non appartengo” con voce pacata e buona lettura metrica riaprirà l’antitesi tra il libero arbitrio che Beatrice spiega a Dante (127-141 I Paradiso) e il vulnus insanabile tra la legge degli dei e quella degli uomini di “Antigone” nello strazio senza soluzione di Creonte (vv 1339).
Giulia è fuggita dal matrimonio ma è nell’aula degli esami e ascolta Andrea.
Piange senza isterie e paranoie, piange e basta, ed è incredibilmente bella.
E il maestro Bellocchio la mostra così, quasi infantile nel suo abitino celeste, come dicesse… e adesso? In un’opera circolare dove la poesia della luce è colonna sonora si può ricominciare proprio quando sembra di averla finita di guardare e Marco Bellocchio in questo film, nel “prendere a cuore” l’inquietudine umana e le umane contraddizioni ci interroga ancora sul nostro oggi dilaniato e claudicante.
Patrizia Garofalo