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Andrea Dall’Asta. Dio Storia dell’uomo
27 Gennaio 2014
 

Andrea Dall’Asta

Dio Storia dell’uomo

Dalla Parola all’immagine

Prefazione a cura da Bartolomeo Sorge

Edizione Messaggero Padova, pagg. 207, € 23

 

La relazione tra parola e immagine costituisce uno dei temi che caratterizzano la civiltà occidentale e il rapporto dell’uomo con la propria vita di fede. Sin dalle origini, il cristianesimo ha sottolineato il rapporto tra parola e immagine. È questo un tema dalle mille sfaccettature, implicazioni e presupposti che affondano le radici nelle scritture ebraiche e dall’alto lato nella cultura greca. Per cui se nel mondo ebraico Dio si rivela al suo popolo attraverso la parola, nella fede cristiana egli si rivela visibile in uomo: Gesù.

Riflettendo su questo rapporto, Andrea Dall’Asta, direttore della Galleria d’arte San Fedele di Milano e della Galleria “Raccolta Lercaro” di Bologna, nel suo volume Dio storia dell’uomo. Dalla Parola all’immagine ripercorre la storia di questi passaggi, in una riflessione interdisciplinare che unisce arte, teologia, filosofia e antropologia.

Come spiegare il continuo sottrarsi del volto di Dio a Israele? Di certo si avverte il timore che la visione del volto dell’altro si trasformi in possesso, manipolazione, idolatria, mentre Dio si pone al di là di ogni possibilità di cattura, è sempre percepito nella distanza e nella differenza, è pura trascendenza e sfugge a qualunque definizione. Mosè desidera conoscere il volto di Dio, tuttavia non lo vedrà. Se vorrà avere una percezione della sua presenza, potrà vedere solo il suo dorso: «Aggiunse il Signore: “Ecco un luogo vicino a me. Tu sarai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere”» (Es 33, 21-23).

Il fatto che Cristo sia entrato nella storia dell’uomo e si sia “mostrato” agli uomini è all’origine di una sua rappresentazione in immagini che consentono di prolungare l’esperienza dei primi testimoni oculari.

Nel contesto della teologia scolastica medievale, il tema della visione di Dio è centrale. È sufficiente pensare alla riflessione di Tommaso d’Aquino. La pienezza della conoscenza di Dio si ha nella visio beatificata, alla quale ogni uomo è destinato alla fine della sua vita terrena. Il fine dell’esistenza umana consiste in una visione: è la contemplazione diretta di Dio, faccia a faccia, termine ultimo del desiderio umano.

Di fatto, i percorsi della tradizione occidentale e di quella orientale non possono essere compresi senza conoscere a fondo il ruolo che il cristianesimo ha assunto nella legittimazione di Dio, assumendo come fondamento il mistero dell’incarnazione.

In questa visione, la raffigurazione del volto diventa un aspetto dominante, in quanto rimanda immediatamente alla persona, all’individuo. Così, se nella tradizione orientale il volto di Cristo è declinato nel Volto Santo (Sainte Face) del Mandylion, in quella occidentale prevale invece la tradizione del Santo Sudario (Saint Suaie).

È interessante considerare come queste “prime” immagini, così come si formano secondo la tradizione già nei primi secoli il Volto Santo o il Santo Sudario, siano acheropite, vale a dire non fatte da mano d’uomo. In questo modo o nell’altro, sono originate dal contatto diretto di Gesù con un panno di lino. In questo senso, non si tratta di un “pittore” che cerca di riprodurre secondo un processo mimetico il volto reale di una persona, fissandone i tratti con linee e colori, ma è Cristo stesso che per contatto ci consegna il suo ritratto. Se per la tradizione orientale il Mandylion è un telo sul quale Cristo imprime il proprio volto perché il toparca di Edessa, ammalato di lebbra, ne sia guarito, per quella occidentale il telo della Veronica è un velo sul quale si sarebbe impresso il volto di Cristo durante la salita al Golgota.

La rappresentazione del volto di Dio segna uno dei punti decisivi della spiritualità cristiana che non esita a riproporre il volto di Cristo secondo infinite varianti, sempre nella finalità di creare un rapporto personale con il fedele. La rappresentazione del volto è dunque strettamente legata alla nozione di soggetto. In questo senso, rispetto al mondo medievale che pensa prevalentemente in termini collettivi, l’emersione del singolo, come si verifica nel Rinascimento italiano, che afferma e valorizza la dignità dell’uomo e la sua gloria personale, non comprensibile senza la centralità della figura di Cristo. Tra le opere alle quali l’autore ricorre per ricostruire la “storia dell’immagine”, la più espressiva è l’Autoritratto di Albert Dürer. Il noto pittore tedesco del Cinquecento, dipingendo il proprio volto, fa coincidere i suoi lineamenti con quelli del volto del Cristo. Sotto il proprio Autoritratto, scrive: «Io, Albrecht Dürer di Norimberga, all’età di 28 anni, con colori eterni ho creato me stesso a mia immagine». L’Autoritratto di Dürer diventa così il segno del compimento della creazione, del destino dell’uomo, che è quello di immedesimarsi sempre più con la persona del Cristo, con la sua bellezza. Il ritratto del pittore tedesco diventa simbolo di una nuova creazione, della coscienza di una profonda dignità umana che affonda le proprie radici nella fede cristiana.

Nel capitolo “Cristo, volto di un’umanità ferita” Andrea Dall’Asta prende come esempio il tedesco Matthias Grünewald, esponente dell’arte europea del Nord Europa del XVI secolo, con una lettura particolare del polittico di Isenheim.

L’opera di proporzioni grandiose, è fondamentale per comprendere come la figura di Cristo sia stata rappresentata a partire da un’attenta lettura dei testi biblici.

La sua ricerca si interroga soprattutto sul significato che l’immagine di Cristo può rivestire per fedeli, colpiti da mille sofferenze. L’apertura del polittico, con la scena della Crocifissione, doveva avere un grande impatto emotivo. Al posto delle ferite dei soldati, i malati, vedevano impresse sul corpo di Cristo le loro piaghe. Toccandolo, chiedevano di esserne guariti. È quindi un’immagine a cui si attribuivano poteri taumaturgici. Il secondo artista, preso in considerazione in questo capitolo, è Georges Rouault, uno dei protagonisti della pittura europea del Novecento,che costituisce uno degli esempi più significativi di come la figura di Cristo, e in particolare il suo volto, siano stati indagati nel Novecento. «All’equazione tra arte e bellezza (egli) sostituisce quella fra arte e verità, cioè fra arte e dramma» (Elena Pontiggia).

L’autore si interroga, nella seconda parte del libro, sul modo con il quale Cristo continua a vivere nel nostro presente attraverso il suo corpo e la comunità ecclesiale. Andrea Dall’Asta ritiene che la vera sfida consiste nell’ascolto degli interrogativi e delle contraddizioni del nostro tempo; occorre, perciò, riflettere su un’arte che parli il linguaggio del nostro tempo e che esprima il desiderio di dare risposte al mistero ultimo dell’esistenza, in ricerca continua di riconoscere un senso al destino della vita.

 

Maria Paola Forlani



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