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Della spiritualità della terra e del seme della parola. Duccio Demetrio e Flavio Ermini 
Note a margine di Patrizia Garofalo
27 Gennaio 2014
 

Un solo spazio compenetra ogni essere:

spazio interiore del mondo. Uccelli taciti

ci attraversano. Io che voglio crescere,

guardo fuori e in me ecco, cresce l’albero.

Rainer Maria Rilke

Guardai me e te

E guardai gli altri

E non bastava ancora

Inge Muller

 


Religiosità di una condivisa rinascita nel ciclo inesauribile che, dalla terra, genera nuove foglie e apre le gemme e s’abbuia nell’ora oscura che veste l’inverno. E nei confronti della terra, l’avvertimento della meraviglia simile alla verginità della primavera e dell’aurora sia nei greti dei fossi che nel camminare cittadino che riporta voci e ricordi e infanzia e primi passi. Essi, subito dopo il distacco dalle braccia materne, lasceranno vuoto, abbandono, nostalgia. Da quel momento, gli inesausti tentativi di abitare il mondo nella ricerca di una totalità e composizione dell’essere. «Nella scrittura poetica è inestricabile il legame che viene a crearsi tra spazio e tempo, da questo legame apprendiamo quanto breve sia il volo terreno e quanta energia esso riesca ad esprimere» scrive Flavio Ermini (Anterem, 64, Giugno 2002).

Sono meraviglia e nostalgia i sentimenti più richiamati nell’ultimo lavoro di Duccio Demetrio sulla spiritualità della terra che, a mio avviso, rimandano allo scritto che segue del poeta Flavio Ermini «ad un incontro sempre rinviato, sempre annullato, cancellato a mai dimenticato». E nell’auroralità della parola, viva è la ricerca di «rompere l’isolamento dell’io… che si curva inesorabilmente in un dire all’altro, in un portare e porre la domanda, nello scuotere il minaccioso dogmatismo del logos paterno con l’antipensiero. Il tu è chiamato a dire questo nuovo sapere, che implica un sovvertimento dei sensi: recuperare sulla terra i tesori che erano dispersi nei cieli». Il “tu”, tanto variamente interpretato dai critici, è un riavvicinarsi alla nostra dimensione originaria fatta emergere e rinascere ogni giorno, è «un abitare poeticamente il mondo» come scriveva Hölderlin. Dare voce alla natura che tanto ci offre è un dovere di noi mortali, un segno di gratitudine, un dovere dell’esistenza, un bene e un patto che non va tradito. Nel tempio di Apollo, dove l’oracolo, ascoltando la terra, traeva vaticini che vendeva ai mendicanti, a Delfi, nelle radici della nostra storia, da lì inizia la scrittura dell’ultimo lavoro di Duccio Demetrio.

 

la vastità della pianura non porta all’orizzonte lo sguardo, né implica il desiderio di collocare altrove le nostre radici. Non sono più immaginabili luoghi sostitutivi dell’antro ed è caduta l’ossessione di impossibile ritorno

(Flavio Ermini, Il matrimonio del cielo con la terra)



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