Ero andato all'Avana portando con me soltanto una piccola valigia, sicuro che presto avrei fatto ritorno a Bruxelles. I miei amici dicevano sempre che ero malato di bruxellosi, non capivano che cosa ci trovassi di così affascinante in quella grigia città europea. Non lo sapevo neppure io, allora. Poi l'avrei capito, ma serviva tempo. Nella mia ventiquattr'ore avevo messo un po' di biancheria, una camicia di ricambio e un paio di pantaloni sportivi. Non volevo restare a Cuba più del tempo strettamente necessario a vedere mia madre, ormai morta, seppellirla, prendere le mie due figlie e tornare da Miriam Gomez. Avevo fatto ritorno a Itaca ma non mi sentivo Ulisse: la mia Penelope era rimasta ad attendere nella vecchia Europa. Non sapevo che il mio sogno ricorrente stava per diventare realtà. Se la mia vita fosse un film, l'avrei chiamata parte onirica, e Dio solo sa quanto ami il cinema, è parte della mia vita, da sempre. Il regista avrebbe cambiato fotografia, oppure avrebbe trovato un escamotage tecnico per far capire che era una parentesi della storia. Io sono un povero scrittore. Non mi resta che il corsivo. Mi trovo a Cuba, aeroporto internazionale José Martì, sto per salire a bordo di un aereo diretto in Europa e mi rendo conto di non avere il passaporto, oppure – in una variante del sogno – mi accorgo di essermi dimenticato di andare al Ministero per ottenere il visto di uscita dal Paese. Ecco, questa sequenza onirica, avrebbe preso forma di tangibile realtà. Ancora non lo sapevo, ma stavo per finire nel Castello di Kafka, inghiottito dai gorghi della burocrazia totalitaria.
Ero in volo sulla mia isola. Itaca era sempre più vicina e mi trasmetteva sensazioni contrastanti. Attrazione e repulsione. I ricordi della mia giovinezza avanera e dell'infanzia orientale si affacciavano alla memoria come spiriti inquieti del passato. Le palme inchiodate al terreno rossiccio, il verde intenso delle grandi sequoie, i condor neri e minacciosi, il paesaggio soleggiato, il cielo reso bianco dal sole, le lunghe strade fiancheggiate da palme. Era la mia Avana. Cominciavo a prendere contatto con la mia terra appena sceso dall'aereo, percorrendo in auto la calzada Rancho Boyeros e l'avenida De Los Presidentes. Fu come un colpo al cuore la visione della casa dei miei genitori, il balcone deserto, le finestre chiuse, apparizione insolita, priva di vita, funesto presagio di quel che stavo per capire. Vidi il corpo senza vita di mia madre alla funeraria Rivero, proprio vicino al mare, lugubre luogo di morte così appresso alla vita, agli schizzi del salmastro, ai giochi dei bambini sulle scogliere della mia giovinezza. Il primo incontro con la realtà della morte di mia madre, ritratta nella fredda obiettività delle parole scolpite. Avrei voluto dire con il poeta: “Non voglio vederla!”. Ma non potevo. Accanto a lei il volto invecchiato di mio padre, triste e ombroso. Vecchio mio, quanto tempo senza vedersi e adesso di nuovo insieme per condividere tanta tristezza. Parole che avrei voluto dire ma che non pronunciai, non ero in un romanzo, in quel momento non servivano parole, né artifici verbali, serviva soltanto il silenzio. Mia madre avrei voluto ricordarla quando mi chiamava dal balcone d'una polverosa strada di Gibara per dirmi che mio padre era rientrato, che era pronto il pranzo. Avrei voluto tenere a mente i suoi silenzi quando partimmo per L'Avana, poveri e senza casa, in cerca di fortuna. Avrei voluto rivederla armeggiare ai fornelli d'una cucina economica, mentre separava i fagioli buoni dai legumi avariati per poi scegliere i chicchi di riso da lessare. Avrei voluto credere che facesse parte del sogno – sequenza onirica d'un film troppe volte temuto – anche il funerale di mia madre. In fondo non era cambiato niente. Lei era morta e tutto andava avanti allo stesso modo. Il parco era lo stesso, le stesse persone andavano a sedere sulle panchine, gli stessi ragazzini giocavano con scivoli e altalene. Tutto va avanti sempre allo stesso modo. Eppure ogni giorno c'è qualcuno che muore. Era duro ammetterlo, ma la sola differenza in quel tramonto triste sul lungomare era la morte di mia madre. Scompariva il segno tangibile della mia infanzia, il braccio amorevole che mi stringeva forte al suo petto, il sorriso dolce del mio passato, la tristezza di troppe incomprensioni. Restavano soltanto i ricordi. Ma non era poco.
Guillermo Cabrera Infante
Traduzione di Gordiano Lupi
(da Ser cultos para ser libres, 22 gennaio 2014)