Cosa può succedere se i sentimenti e le confidenze di ognuno di noi vengono mostrati e rivolte al prossimo solo per tramite della tecnologia? Quel prodigio che aiuta ogni giorno in tanti aspetti del quotidiano, ma che può trasformarsi in fretta in una vera e propria trappola.
Traduzione: Internet, le chat, l’essere sempre on line, pronti alla comunicazione immediata, sono strumenti utili o possono diventare delle gabbie in cui rifugiarsi, pensando di eludere la messa in campo diretta di noi stessi e di ciò che proviamo?
È quanto fa da trama a Disconnect, il film di Henry Alex Rubin, premiato da un grande successo di critica e pubblico.
Sono tante le storie che vanno ad intrecciarsi, sullo stile vincente che fu di films quali America oggi di Altman oppure Crash, di Paul Haggis.
Questa volta grande attenzione viene rivolta al mondo degli adolescenti, anche se poi inevitabilmente gli adulti, di quel mondo, dovrebbero essere responsabili, attenti coprotagonisti, referenti per i propri figli, mentre qui sono tutti alle prese con le proprie vite accelerate, fornitori di esempi non proprio da emulare.
C’è Kyle, giovane ragazzo alla deriva, raccattato da un uomo senza scrupoli, novello Fagin di dickensiana memoria, che lo inizia, insieme a tanti altri ragazzi allontanatisi per chissà quali motivi da casa, alla pornografia via web cam: giochi e trastulli erotici on line, in cambio di soldi da “dividere” col capo…
C’è la giornalista che decide di fare uno scoop su questa vicenda, riuscendo ad infiltrarsi nella rete e poi a conoscere il ragazzo, ma le implicazioni saranno tante e tutte fonte di problemi ad affacciarsi fra percezione di un dovere di denuncia e senso di colpa rispetto alla fiducia accordata, e ancora distinzione fra tutto questo e il desiderio di affermarsi nel proprio lavoro, nelle proprie ambizioni.
C’è la storia di Ben, struggente quanto realistica e tristemente spesso presente nelle pagine di cronaca: uno studente quindicenne, introverso e sfuggente sia in famiglia che a scuola, viene preso di mira da due compagni i quali, partendo da quello che loro percepiscono come uno scherzo e che invece è vero e proprio bullismo in rete, si renderanno responsabili ultimi di un dramma difficile da superare.
E poi c’è la storia di una coppia che ha perso un figlio piccolo e non riesce più a ritrovarsi: lei dedita al mondo delle chat, dove cerca rifugio e sfogo; lui distratto e perennemente – quanto falsamente – indaffarato, che si sottrae a qualsiasi confronto. I segreti fra di loro si andranno ad accumulare, fino a che qualcuno, riuscendo ad entrare nel data base del loro PC, creerà problemi finanziari ai due, facendo emergere in tal modo rabbia e dolore nascosti.
Sono spunti, tutti questi, di una riflessione non nuova, certamente, ma sempre più doverosa sulla quale soffermarsi. Chi spiega adeguatamente ai propri figli quanto sia più importante il rapporto diretto con le persone, l’ascolto, un abbraccio reale, anziché tutta questa virtuale vicinanza, pronta a stemperarsi per un nonnulla e a divenire indifferenza o peggio? E prima ancora, quanto reputiamo importante anche noi adulti soffermarci più in profondità negli accadimenti che normalmente rivestono le nostre relazioni interpersonali? Oppure è per noi consuetudine che tutto avvenga con un click, un sms, un dirsi e darsi per poco tempo e velocemente?
Il regista, noto documentarista, questa volta alle prese col cinema di fiction, ha voluto proporre tanti spunti sull’uso continuo, acritico e a volte ingenuo delle nuove tecnologie, avvalendosi di una sceneggiatura (di Andrew Stern) incalzante, attenta ai dialoghi e alla costruzione di personaggi credibili.
Con quest’ottimo cast e un’attenta regia, lo spettatore dovrà decidere se accogliere – e in che misura – l’invito a disconnettersi dal virtuale, in favore di qualcosa di molto più autentico, in grado di dare spessore e sale alle nostre esistenze.
Oppure condividere il pensiero di un commentatore del film, sulla Gazzetta del Mezzogiorno (Lino Patruno), il quale afferma che le potenzialità della tecnologia non sono nostre nemiche, anzi in teoria servirebbero a migliorarci la vita. A peggiorarcela siamo sempre noi.
Annagloria Del Piano