Vogliamo rendere omaggio al regista Carlo Mazzacurati riproponendo la bella intervista di don Franco Patruno apparsa sull’Osservatore Romano nel 2002.
Quell'inalterata purezza
sul volto dei “perdenti”
Arrivo in via Tito Speri, una piccola ma suggestiva strada quasi a fronte dell'aeroporto di Padova. Carlo Mazzacurati mi attende sulla porta di una semplice ma deliziosa villetta che sembra pensata per non turbare lo sguardo. Eppure, con i colori tenui di un quadro morandiano su fondo bianco non accecante, sembra trattenere ogni esplicito messaggio, come nei film di chi la abita. Avevamo fatto amicizia solo per telefono ed il colloquio era già iniziato via cavo quando, senza proemio, avevo comunicato al regista un entusiasmo ormai lontano: Il Prete bello, tratto dal romanzo di Parise. Non avevo ancora visto il film del “lancio” di Mazzacurati, cioè quella Notte italiana, con produzione di Nanni Moretti, che gli valse il Nastro d'argento a Venezia nel 1988. I bambini avevano trasformato le atmosfere del libro di Parise introducendo una storia trasversale, quasi parallela, con evidente omaggio a luoghi e paesaggi che mi richiamavano il Fellini di Amarcord. I ragazzi invece, mi erano parsi un omaggio a Quattrocento colpi di Truffaut.
Il dialogo ufficiale inizia subito, non prima di essermi soffermato su due incisioni che creano, nella discrezione del soggiorno, una sorta di atmosfera fiamminga. Sono di un giovane artista dalla mano prodigiosa. Credo che Carlo le tenga come gradito fondale per il richiamo alla fitta rete di segni e segmenti di un bosco nel quale la luce è nel filamento, nel definire la densità e la leggerezza del segno. Gli racconto di un colloquio con Ermanno Olmi e Mazzacurati mi interrompe dicendo: «È appena uscito Paolo Cotignola dallo studio video, stiamo completando il montaggio di A cavallo della tigre». Cotignola è uno dei più bravi operatori al montaggio, uno che ha il ritmo nel sangue; basti dire che di lui si fida, appunto, Olmi, notoriamente poco propenso a lasciare ad altri lo “specifico filmico”, come si diceva negli anni delle battaglie sulla settima arte.
Non c'è bisogno di seguire un filo. «A cavallo della tigre è la storia di un essere umano» dice Mazzacurati con il pudore di chi non ha portato ancora a compimento l'opera «e per me dire essere umano vuol dire tutto. L'idea mi è venuta da un film di Comencini di quarant'anni fa. Non si tratta di un rifacimento, naturalmente: in questi decenni è cambiato il clima, si sono modificate le situazioni sociali. Mi interessava la storia: uno che, in un certo momento della sua vita, cerca una scorciatoia per risolvere problemi che si sono accumulati. Finge una rapina per risolvere una situazione economicamente disperata. Tutto è raccontato come in una specie di viaggio che un uomo mediocre percorre per tentare un riscatto paradossale. Ma è proprio in questo suo viaggio che scopre nuove dimensioni della vita. Le catastrofi a cui va incontro sono tante che non potevo se non risolverle con tratti in parte umoristici. Alla fine del viaggio, però, quando tocca il fondo, diventa più tollerante: il dolore, lo smacco e l'insuccesso lo sintonizzano con una condizione umana nella quale anche chi vive nella disgrazia non è mai totalmente perduto».
Annoto che sono diversissime le situazioni di perdenti nei suoi film, quelli che anche nel Vangelo noi chiamiamo gli “ultimi”. Mazzacurati ha una visione in itinere del cinema: «Non posso veramente parlare su ciò su cui sto lavorando se non alla fine, quando ciò che doveva formarsi, in un qualche modo, si è formato». Mi accorgo che non è, chiaramente, per quella che un tempo si definiva sceneggiatura di ferro: tutto predisposto nel testo.
«Non ne sarei mai capace» aggiunge subito «perché dalla prima idea agli appunti sino ad una più dettagliata griglia, il testo scritto rimane sempre tale. Un'opera, cioè, parallela, con un suo valore ed un suo significato». Gli faccio notare che è sicuramente più difficile affrontare le riprese con questa prospettiva felliniana. «Sicuramente» mi dice «c'è una componente di inedito, di spazio aperto che crea, per me, l'esperienza del viaggio con gli altri».
La conversazione mi coinvolge maggiormente e passo subito ad un altro film che, confesso, mi ha commosso: Vesna va veloce. Il volto della ragazza cecoslovacca, che Vittorio de Sica avrebbe sicuramente adottata, come scrive Tullio Kezich, mi ha inseguito per diversi giorni. Se è vero che Antonio Albanese, che abita un felice personaggio dalla tenerezza estrema, ha avuto modo di documentare la sua bravura in un ruolo di drammatica e tenera quotidianità, Vesna mi è apparsa nella trasparenza della ragazza che invita Mastroianni nel finale de La dolce vita. Non pochi, allora, intravidero in quel richiamo una voce trascendente.
Carlo si inserisce ora con un timido ma affettuoso sorriso: «Vesna mi ricordava un angelo di Leonardo, un volto che quasi appare ogni volta anche quando è nella storia da tempo. Sono molto vicino alla cronaca di questi perdenti, di questi volti che mantengono un'inalterata purezza pur travolti da smacchi e disillusioni. Ho cercato di seguirla nel film, quasi Vesna mi conducesse con il suo sguardo». Aggiungo che, per le modalità della mia ricezione, c'è religiosità in quella trasparenza e che l'immagine dell'angelo leonardesco, in contrapposizione con l'oleografia new age, mi indica una chiave di lettura per il film.
Avevamo fatto insieme il nome di Fellini e viene ora spontaneo riprendere quel riferimento: Mazzacurati afferma che «non solo Amarcord, ma soprattutto La strada mi accompagna da tempo». Gli ricordo Zampanò che finalmente piange sotto il cielo stellato in una spiaggia romagnola. Carlo sottolinea che il primo Fellini è stato un po’ dimenticato. «Invece» riprende «già da Luci del varietà c'era già tutto».
Quando si trovano sintonie ogni colloquio non conta i minuti che passano. «Quando pensai a Il toro, il riferimento era ad un animale che ho molto amato: il somarello di Au hasard Balthazar di Robert Bresson». Sorridendo, racconto a Mazzacurati non solo il mio personale affetto per quello splendido film e per la via crucis di questo povero asinello, ma le diciotto volte che inflissi il film a platee giovanili in cineforum ormai mitici, con alcuni aspetti dai risvolti comici per la mia ostinata cocciutaggine nel riproporlo con ritmo ciclico, simile a quello delle stagioni.
«Il toro invece che ho scelto doveva a breve essere ammazzato. Lo salvai, credo, e ne feci un protagonista: Corinto, il riproduttore numero cinque nel mondo. Trascinato in Ungheria tra notevoli peripezie, patisce l'affronto di essere rifiutato in quanto rubato. Non finirà come il Balthazar di Bresson, perché, anche se ammalato e ormai in procinto di essere abbandonato, trova qualcuno che è disposto a pagarlo trecento vitelli. L'ho comprai, Corinto, perché mi ero affezionato».
Ed arriviamo al successo de La lingua del santo che Paolo Vecchi, su Cineforum, descrive come «una delle più intense storie di amicizia virile cui ci sia capitato d'assistere… tanto più commovente in quanto raccontata con pudore e ironia, oltre alla consueta finezza psicologica nel delineare la dinamica dei rapporti tra i due personaggi».
Mazzacurati sorride e ho l'impressione, presto confermata, che si sia anche divertito nel girarlo. Sottolinea che intendeva collegarsi anche con una certa atmosfera della commedia all'italiana, senza, però, che perdesse il suo significato di noir un po’ leggero e morale. «È stato un piacere lavorare con Albanese e Bentivoglio, diversissimi tra loro. La bravura di entrambi, evidentemente, li ha fatti partecipi a ciò che stavano interpretando. Il tono ironico è anche nelle situazioni del film, ma anche in quelle esterne. Pensa che abbiamo ricostruito la basilica di Sant'Antonio con interni di diverse piccole chiese, cercando di sfruttare angolature che ci permettessero di essere in continuità con il santuario». Alcuni religiosi, e al sottoscritto vengono in mente i francescani di Paisà, vedendo il film avevano affermato: «Ma come hanno fatto ad entrare?» Paradossalmente, l'osservazione conferma il mistero della mimesi cinematografica.
Prima di raggiungere Mazzacurati, avevo letto la scheda del Centro Cattolico Cinematografico, evidentemente frutto di un critico che di cinema s'intende. Approvo quando annota che «la storia diventa una radiografia, partecipata e insieme severa, dell'Italia di oggi (…) al bivio delle decisioni importanti tra vecchio e nuovo, Antonio e Willy sono (…) due facce della stessa medaglia che però deve essere autentica da entrambi i lati».
Mi colpisce nel regista padovano la curiosità culturale ed un forte amore per la poesia e la letteratura. Ne sono prova due “Ritratti”, prodotti dalla Vesna Film, con la ricostruzione di un mondo, quello di Mario Rigoni Stern e di Andrea Zanzotto, ideati insieme a Marco Paolini. Zanzotto non manca di stupirmi per la creatività del linguaggio e la continua sperimentazione. Mazzacurati mi dice che è «la persona più radicale e delicata che io abbia mai incontrato. Mi affascinano i suoi contrasti estremi e inattesi, come è dei grandi poeti nei quali la leggerezza non nasconde la sofferenza e la profondità non teme la fragilità. Dialogando con lui sembra che il passato, anche il più remoto, viva in un eterno presente. Gli occhi sono sempre vivi e ironici e sembrano dire oltre ciò che di fatto è espresso, come una vita senza parole. Zanzotto, mentre lo guardavo e riprendevo, sembrava sempre pormi la domanda sull'essenza della poesia. Una sola immagine acquistava contorni: quella di un fiore».
Dico al regista che quel ritratto cinematografico è di autentico ospitalità del cuore e dello sguardo, non solo nel senso di lasciare parlare il vero protagonista del quadro, ma nell'atteggiamento di mettersi in autentico ascolto, senza prevenire o invadere secondo il punto di vista di chi, comunque, mette in scena i tratti della persona. Mi accorgo che leggerezza ed inquietudine, lasciare che persone, volti e luoghi si manifestino è la vocazione di Carlo. Se è vero che ogni ritratto è sempre un'interpretazione, ciò non esclude che, nello stupore dell'ascolto, chi è in scena non ci ponga domande sempre nuove. Penso ancora a Vesna che corre veloce in attesa che il mondo le riservi degli spazi inediti, che nessun occhio ancora può vedere.
Franco Patruno
(L'Osservatore romano, 01/06/2002)