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Gabriela Jacomella. Incomprensibile “Africa selvaggia” che rifiuta di essere “salvata”? 
È di nuovo scoppiata la guerra in Sud Sudan
11 Gennaio 2014
 

Vivo in Sud Sudan da oltre 15 mesi. E per tutto questo tempo mi ero abituata a rispondere a una serie di domande sempre uguali: “Come vanno le cose in Sudan?” (risposta: non lo so. Il Sudan sta a Nord, io vivo in un altro Paese. Che ci ha messo giusto due guerre civili per ottenere l’indipendenza…). “Ma non ti pesa vivere in uno Stato islamico?” (risposta: no, perché non ci vivo. Il Sudan è una nazione a maggioranza musulmana. In Sud Sudan, invece, ci sono molte meno moschee che chiese, e la popolazione è in preponderanza cristiano-animista.) “Ho visto in tv gli scontri a Khartoum, stai bene?” (risposta: sì. Anche perché tra Juba, la capitale del Sud Sudan, e Khartoum, la capitale del Sudan, ci potresti piazzare tutta l’Italia, dalla Valtellina a Lampedusa. Con la differenza che, giù, non ci sono neanche strade a collegarle.)

Da qualche settimana a questa parte, però, le domande sono radicalmente cambiate. Perché in Sud Sudan, il mio Paese adottivo, è di nuovo scoppiata la guerra. Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, Juba è stata risvegliata dalle raffiche di mitra e dai colpi di mortaio. Nei giorni successivi, la città è diventata il teatro di scontri sempre più violenti tra le truppe governative fedeli al presidente in carica, Salva Kiir, e il gruppo dei ribelli, ben presto coagulatisi intorno alla figura dell’ex vicepresidente Riek Machar. Lo spazio aereo è stato chiuso, il coprifuoco dalle sei di sera alle sei del mattino ha trasformato le strade in deserti silenziosi. Una calma surreale, interrotta dalle detonazioni dei cannoni e dei kalashnikov. Notte e giorno, nessuna differenza. Con i “disertori” e l’esercito che si inseguivano e si trucidavano tra le capanne di fango e lamiera dei quartieri più poveri, e i carri armati che sbranavano a morsi l’asfalto delle vie centrali di Juba, a neanche un chilometro da casa nostra.

In meno di una settimana, il governo ha ripreso il controllo quasi assoluto della capitale. Ma la guerra ha semplicemente spostato e moltiplicato il proprio baricentro: dalla città più importante della nazione più giovane del mondo – il Sud Sudan è diventato indipendente nel 2011 – ai centri più periferici, ma dall’importanza strategica, di Bor, Bentiu, Malakal, negli Stati di Jonglei, Unity, Upper Nile. Il bilancio, aggiornato al 10 gennaio, è di circa 10mila vittime e 201mila sfollati (in un Paese grande come la Francia e abitato da circa 8-10 milioni di persone). Decine di migliaia di civili hanno cercato rifugio nelle basi di UNMISS, la missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan.

In una nazione priva di infrastrutture – l’unica strada asfaltata è quella che connette Juba al confine con l’Uganda, l’energia elettrica arriva (per chi può permetterselo) da generatori e pannelli solari, la capitale non ha fognature né acqua corrente – e già prostrata da oltre mezzo secolo di conflitto quasi ininterrotto, le vittime sono, come e più di sempre, le fasce deboli della popolazione: civili disarmati, donne e bambini in fuga, interi villaggi che hanno avuto la sfortuna di trovarsi sulla traiettoria delle jeep e dei carri armati.

All’origine di tutto c’è uno scontro di poteri che affonda le sue radici nei decenni della seconda guerra civile sudanese, scoppiata nel 1983 e conclusasi con gli accordi di pace del 2005. Nel 1991, l’oggi ex vice presidente del Sud Sudan – e leader del fronte ribelle – Riek Machar è protagonista di una sanguinosa scissione in seno all’SPLA (Sudan People Liberation Army), il movimento di guerriglia poi divenuto esercito nazionale. La scissione, nata da motivazioni strategiche e ideologiche, si sviluppa lungo linee tribali: da un lato i Dinka dell’eroe nazionale John Garang e del suo luogotenente Salva Kiir, dall’altro i Nuer di Riek Machar (che ad un certo punto tornerà addirittura ad allearsi in funzione anti-Garang con l’arcinemico di Khartoum). Seguirà un decennio di scontri e violenze, destinati a lasciare tracce profonde e, secondo alcuni, indelebili nel DNA della nuova nazione.

Con gli accordi di pace e, soprattutto, il referendum con cui – soltanto tre anni fa – quasi la totalità dei sudsudanesi aveva optato per l’indipendenza dal regime sudanese, le antiche inimicizie erano state sepolte sotto il peso della realpolitik: la riconciliazione come parte integrante dello sviluppo democratico, le anime diverse della guerriglia assorbite dall’esercito nazionale, il “traditore” Machar tornato in seno all’SPLM (l’ala politica dell’SPLA, oggi partito al governo in Sud Sudan) e assurto al ruolo non puramente simbolico di vicepresidente.

Una frattura ricomposta soltanto in apparenza. La crescente ambizione di Machar, combinata con l’impopolarità sempre più diffusa di Kiir e del suo governo, ha fatto sì che a fine luglio il vice presidente venisse rimosso dall’incarico, insieme a un buon numero di ministri, capri espiatori veri o presunti di una situazione politico-economica sull’orlo del collasso. E quando Machar, a novembre, ha dichiarato la propria intenzione di candidarsi alle presidenziali del 2015, sostenuto da un gruppo d’opposizione trasversale (e trans-tribale), la tensione è tornata a salire. Fino all’incidente mai chiarito della notte tra il 15 e il 16 dicembre: un tentativo da parte di Salva Kiir di disarmare e rendere innocui i fedelissimi di Machar nelle fila dell’SPLA? Un’insurrezione spontanea degli stessi soldati pro-Machar? Un colpo di Stato mal organizzato, come sostenuto dal presidente Kiir?

Analisti e commentatori internazionali sembrano oggi propendere per la prima ipotesi: uno scontro politico, dunque, giocato dietro le quinte della diplomazia e tracimato in un conflitto civile che ha riaperto ferite mai sanate. Ma queste dinamiche antiche fanno da comodo paravento per un conflitto dai contorni molto più ampi: il Sud Sudan è uno Stato-chiave nello scacchiere dell’Africa orientale, una democrazia embrionale – o così ci si era voluti illudere – sostenuta a spada tratta dalle potenze occidentali (Stati Uniti in testa), un territorio selvaggio punteggiato di pozzi petroliferi e foreste di teak, attraversato dai meandri sinuosi del Nilo Bianco, abitato da un universo di popoli – una sessantina le tribù “ufficiali” – dalle mille lingue e sfumature diverse.

Uno dei Paesi più poveri e sottosviluppati del mondo, dove interessi economici e politici si sovrappongono alle ideologie, e dove i civili vengono usati come pedine incolpevoli e inconsapevoli in un gioco molto più grande di loro. Nei primi giorni del 2014, le grandi potenze hanno iniziato a fare pressione per una risoluzione rapida del conflitto. La Cina, che in Sud Sudan è titolare delle principali concessioni per lo sfruttamento dei pozzi petroliferi, ha per una volta dimenticato la propria politica di “non interferenza”. Gli Stati Uniti hanno apertamente ripudiato la versione “ufficiale” del colpo di Stato, ostentando la propria irritazione verso il governo – una volta “amico” – di Kiir. Si attendono, senza facili entusiasmi, i risultati delle trattative tra la delegazione governativa e quella ribelle, in corso ad Addis Abeba.

Nel frattempo la gente del Sud Sudan continua a scappare, a vivere nel terrore, a morire. E quelli tra noi che a questa terra sono legati a filo doppio, e che vorrebbero poter tornare, si ritrovano ad assistere da lontano alla narrazione dell’ennesima facile bugia: quella di un conflitto tribale e ingiustificato, che nessuno avrebbe potuto prevenire né evitare. L’Africa selvaggia e incomprensibile, quella che rifiuta di essere “salvata”. Basterebbe, invece, sollevare per un istante il velo dell’ipocrisia, per individuare le solite ragioni per cui si combattono le guerre: soldi, risorse, potere. E la carta del conflitto etnico giocata con sapienza, per buttare fumo negli occhi a chi non sa o non vuole sapere.


Gabriela Jacomella

@gab_jacomella


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