Il rapporto tra il tennis e la letteratura ci ha regalato delle perle di lucentissima bellezza. Mi vengono in mente tre titoli tra tutti: Tennis di John McPhee, Open di Andre Agassi, e Il tennis come esperienza religiosa di David Foster Wallace. In compenso, il rapporto con il cinema è sempre stato più difficile. I cineasti si sono sempre tenuti distanti dal campo di gioco, come se, in una partita di tennis, ci fosse qualcosa che non potesse essere restituito dalla telecamera. Eppure a Hollywood il tennis si è sempre giocato. Online si trovano immagini e video rarissimi (e sfocatissimi) di partite storiche (nel senso che sono giocate da personaggi storici). Si può vedere una coppia di doppisti di eccezione, Fred Perry e Charlie Chaplin da una parte e Ellsworth Vines e Groucho Marx dall'altra oppure due musicisti d'eccezione, Arnold Schoenberg e George Gershwin (la leggenda narra anche di una fissazione di Schoenberg per un nuovo sistema di notazione del punteggio che spiegava continuamente a Gershwin).
Però, in realtà, basta pensarci per capire il motivo di questa mancanza. Prendete un qualsiasi match a caso e pensate all'essenza del gioco del tennis. Wallace parla del tennis come di uno sport che comporta un pensiero geometrico. Per capirlo non è necessario inventare nulla, basta raccontare, essere bravi descrittori, pieni di inventiva e conoscere lo sport (e come lo era Foster Wallace tanto lo era McPhee). Basta prendere il DVD del torneo di Wimbledon del 2012 e vedere il tennista più sublime di sempre giocare in bianco come tradizione. Questo è il tennis, non c'è necessità di alcun approfondimento. È vero poi che esiste un lato più oscuro di questo sport, uno su tutti il paradosso che lo contraddistingue, lo studio delle mosse dell'avversario, il vivere la partita quasi in simbiosi con l'altro e il fatto che sia uno tra gli sport più solitari e autistici. Questo sì, che potrebbe essere interessante mettere in pellicola (per quanto riguarda la carta stampata il libro di Agassi approfondisce molto questo punto). Proprio la difficoltà della telecamera di aggiungere qualcosa allo sport giocato dà alla letteratura quello slancio in più. Pensate ad uno dei cosiddetti “Federer moments”, quei momenti in cui, guardando lo svizzero giocare, gli occhi sembrano uscire dalle orbite, la mascella si allunga più che non si può e la mente e la vista non riescono a credere a quello che stanno guardando. Questi frangenti improvvisi sono ancora più disarmanti se uno ha una minima concezione ed esperienza del gioco, in modo da avere chiara l'impossibilità di quello che è appena successo. Federer contro Agassi, US Open 2005, un colpo dello svizzero che “sembra uscito da Matrix”, il pubblico che non crede a quello che ha visto, Agassi sconcertato, be', pensate come deve essere difficile renderlo in un film. Leggere Wallace che parla di Federer è una delle cose più emozionanti che si possa fare (soprattutto per un amante di questo sport), una vera e propria esperienza religiosa. Leggere dello scambio tra Agassi e Federer rimanda al libro di McPhee. Il grande giornalista del New Yorker racconta la semifinale degli US Open del 1968 tra Clark Graebner e Arthur Ashe, tra un bianco e un nero, tra un repubblicano borghese e un ragazzo che si allenava con i manici di scopa (“se ci riesci con quella poi potrai passare alla racchetta” gli diceva il padre). McPhee ce la racconta come una sfida epica, una partita dove in gioco c'è molto di più, uno scontro tra due personaggi agli antipodi, amici ma avversari. Così Clark che guarda sempre la moglie seduta sugli spalti e Arthur che invece per tutta la partita è tranquillo e imperscrutabile, tanto da piazzare due demi-volée in due momenti critici del match. Livelli di gioco è, a detta di molti tra cui anche il bravissimo Gianni Clerici, la più bella cronaca di una partita di tennis, ma è anche tanto altro, un saggio di una scrittura giornalistica oggi molto, troppo, rara. Il flusso di coscienza si intervalla ad un'esattezza descrittiva devastante e questi ci portano con la mente ad un tennis che non esiste più, non il caratteristico “andamento a farfalla” del tennis potente odierno, ma rovesci ad una mano che si concludono a braccia aperte come una vittoria alata. Provate a leggere Wallace, McPhee e Agassi e vedete se sentite la mancanza di un film sul tennis.
Matteo Moca
(in Son of Marketing, 7 luglio 2013)