La parola poetica di Patrizia Garofalo, nella silloge Il dio dell’impossibile, nel momento stesso in cui si manifesta sulla pagina bianca appare ossimorica, per il bisogno e la ricerca stessa del silenzio che attraversa tutta la raccolta. Del resto il silenzio, dice la poetessa, “è l’urlo dei poeti”. Così abbiamo i “silenziosi custodi di amori che non passano”, e “incapaci al silenzio”, e “il silenzio dentro il quale custodisco/ le parole” che sa di sole, c’è “il silenzio del sogno”, la notte silenziosa, l’avvertire alberi resinosi nel silenzio, l’essere stordita dal silenzio...
È proprio nel silenzio e nella solitudine che possono prendere forma le immagini poetiche, acquistare la leggerezza del sogno, la bellezza di un ricordo, ma anche il dolore e la ferita: “il silenzio/ per chi lo ascolta è assordante”.
Il registro linguistico passa da aperture su cieli, stelle, mare, alberi e prati, dune, neve e chiari di luna, alla ricerca improvvisa di un realismo che mette a nudo le sofferenze più profonde di un’anima che cerca invano di camuffarlo, il dolore: “mi lavo dalla putredine che sento appena ti avvicini/ obeso/ sudato/ avido/ famelico/ insaziabile”.
La natura non è tutta luce, bensì offre nebbie, fantasmi di piante, girasoli dalla breve vita. E contiene essa stessa violenza: “strage di rose tutto il giorno/ petali ispessiti/ da sabbia e sangue”, e l’acqua può essere sporca e intorno esserci solo “rigurgiti di vita”.
A livello reale o simbolico, qualsiasi sia la natura di quel dolore esistenziale, esso prende forma attraverso la parola poetica, l’unica capace di contenerlo e rappresentarlo, in una sfida continua al dio dell’impossibile.
La parola diventa cura, anche se non è sufficiente a definire la prigionia esistenziale, anche se non tutto può fare per alleggerire “la cintura di sassi” a cui ci si sente legati e con cui si cammina. Quella parola che diventa curativa nel momento in cui può esprimere anche l’odio, il grido: “arrivano parole/ attaccate ai sentimenti/ schiumano anche odio”, assapora la propria libertà, come una farfalla che prende il volo, e si apre distesa a ferire il foglio e a spruzzarlo di sangue: “libera/ senza scorie/ donazione di sincerità/ ferirà il foglio/ e/ lo spruzzerà di sangue”.
C’è bisogno di tenerezza, quella tenerezza è rimasta legata a momenti da conservare nel ricordo o da sognare ancora, per questo si cerca: “tremano le mie mani/ ad una carezza”, e si offre: “mentre ti stringo al seno/ e/ ravvio i tuoi capelli con amore”.
Anche la solitudine ha una voce, quella del vuoto che romba intorno e non fa trovare ormeggi, eppure non c’è resa, il corpo svuotato non si arrende, “non vuole scendere alla prossima”. Perché solitudine è freddo e miseria dell’esistere: “se fossimo accanto/ saremmo più coperti/ meno ciechi/ più ricchi”.
Salvezza può essere forse impastare le mani nella terra, calarsi giù dal sogno, trovare forza nella concretezza: “Assenza di sogni/ sento l’acciottolato/ carezzare i passi/ come prato tenero…/ penetrante mi invade il desiderio di terra”.
Rimane trasversale una aspirazione grande, sovrumana, il desiderio di annullamento nella luce, per diventare creatura della terra e poi rinascere col sole, quasi una ricerca di altra immortalità: “guardo riflessa nell’acqua/ la mia immagine accecata dal primo sole/ una barca passa lenta/ senza difese mi lascio cancellare/ sarò riscritta”.
Patrizia Garofalo, Il Dio dell’Impossibile
Introduzione di William Navarrete
Postfazione di Paolo Ruffilli
Edizioni Il Foglio, 2009, pp. 131, € 12,00