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Gianfranco Cercone. “Philomena” di Stephen Frears: religione e religione
02 Gennaio 2014
 

Si sa che la Fortuna assegna alla vita di ognuno un certo carico di eventi felici e di disgrazie; e l’accettazione delle une e degli altri – e dunque del Mistero che governa la nostra vita – è propria, anche, dello spirito religioso.

C’è tuttavia un diverso spirito religioso – o sedicente tale – che, per cecità, per follia, tende ad aggravare le nostre disgrazie e a trasformare le gioie in dolori. Si fonda su comandamenti e proibizioni che ostacolano il flusso della vita.

Il contrasto tra queste due “versioni” dello spirito religioso lo si ritrova in un bel film inglese, diretto da Stephen Frears, intitolato Philomena.

La storia, basata su eventi realmente accaduti, si svolge ai giorni nostri, ma presuppone un antefatto determinante, rievocato in alcuni flashback, avvenuto circa cinquant’anni prima.

A quell’epoca, in Irlanda, una ragazza rimasta incinta in seguito una relazione extraconiugale viene affidata dalla famiglia a un convento di monache; le quali la fanno partorire in segreto, e poi danno in adozione il figlio della colpa, dietro congruo compenso, a una coppia di americani.

La ragazza resta a lavorare per alcuni anni nella lavanderia del convento, per rimborsare le monache dell’assistenza ricevuta e per espiare nel duro lavoro, il peccato commesso. Le viene anche fatto firmare un contratto nel quale lei rinuncia a ogni diritto sul bambino, fosse anche quello di ricevere informazioni sulla sua crescita e sul suo futuro.

Questo, appunto, l’antefatto. Ora, tale macigno frapposto tra una madre e un figlio dal cattolicesimo più nero, non riesce a impedire che la vita di entrambi continui anche felicemente, in barba si direbbe ai divieti religiosi: il figlio, che è gay, ha una vita sentimentale appagante e fa una gran carriera in politica; e che la relazione tra madre e figlio prosegua come può. Il figlio torna in Irlanda alla ricerca della madre; la madre va alla ricerca del figlio, bussando invano alle porte del convento, e poi affidandosi alle ricerche di un giornalista, anticlericale, un po’ cinico, ma abile e determinato. E tuttavia il danno arrecato a tale relazione si dimostrerà irreparabile. E il film è anche una denuncia della mostruosità di un certo oscurantismo cattolico. Ma si aggiunge una sfumatura, una “sottigliezza”.

Nei dialoghi, ad esempio tra il giornalista anticlericale e la madre, tuttora cattolica ma mitemente, senza fanatismi – ma anche nel tono complessivo del film – si può cogliere l’aspirazione a una religiosità diversa: che non demonizzi il sesso ma ne riconosca la bellezza, che sia più indulgente nei confronti della vita umana, così fragile, insidiata dalla malattia e dalla morte; e forse così davvero cristiana.

È comunque sottile la regia di Frears, di taglio tradizionale, ma non per questo ovvia, di alto livello professionale. La madre è interpretata da una grande e celebre attrice come Judi Dench; ma la qualità degli attori inglesi, mediamente assai alta, si conferma tale anche in questo film.

 

Gianfranco Cercone

(da Notizie Radicali, 30 dicembre 2013)


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