Questa foto di Pilar Rubi interpreta il mio vero mondo avanero, il mio scenario cubano personale, il mio ritiro insulare alla fine di ogni viaggio e il silenzioso cammino nella genesi del mio “tropidramma”.
Vita di baia ‘a borsa’, territorio circondato dall’acqua e breve sbocco sul mare senza frontiere visibili. Odissea intrinseca, indecifrabile. Forgiata da 50 anni di codici sigillati con la ceralacca. Occhi spalancati, mani disposte a indicare il pericolo, il piacere, la vita reale.
Io continuo a stare qui, felice o sventurata, rido, piango o mi lamento lanciando dardi di miele e inchiostro di china. Le mie battaglie partono sempre da qui, con il mio accento, nella mia lingua, questa lingua che pronuncia il dolore e la gioia in modo famigliare, riconoscibile. Qui io ardo, nel sole dei giorni e nelle notti, indurendo la mia testa e la mia pelle con le lune di Cuba.
Per mimetizzarci e sopravvivere impariamo a tradurre nomi o argomenti di una certa gravità in gesti nascosti. Fidel, ad esempio, si indica descrivendo la barba con una simpatica mimica che scende a punta verso il basso. Negro, sfregando il dito indice nella parte superiore dell’altra mano. ‘Zitto, che ci sono i microfoni’, chiudendo la bocca come una cerniera immaginaria e indicando subito dopo il soffitto con il dito indice. Raúl, facendo gli occhi da cinese con uno o due dita.
Sostituiamo il linguaggio verbale con codici gestuali, simili a quelli dei sordomuti, ma un po’ più timidi e discreti.
Anche per la nostra nevrosi dei telefoni-microfoni esiste una bella varietà di palliativi. Se al telefono chiediamo a un’amica o a una vicina di procurarci della carne di manzo (al mercato nero) dobbiamo sostituire questo termine con tessuto rosso. Se vogliamo comprare dell’aragosta, allora diciamo che vorremmo uno scarafaggio di mare.
Nel caso in cui ci serva la benzina, diremmo cibo per l’animaletto azzurro, verde o bianco, a seconda del colore della nostra automobile. Se quello che chiediamo è latte in polvere, allora dovremmo chiamarlo talco.
La semiotica della ricerca quotidiana di viveri ci porta a sviluppare nuovi codici nel linguaggio domestico. Simulatori verbali. Metalinguaggi di routine, schemi polisemantici dello sproposito vanno diversificandosi, reinventando o modificando i significati originali, a seconda dello stato degli avvenimenti interni.
Saremmo davvero sprovveduti a credere che ci ascoltano tutti quanti allo stesso modo, o che chi ci ascolta non conosce le nuovi denominazioni, perché anche chi ci sorveglia ha bisogno di talco, di cibo per l’animaletto rosso, vuole lo scarafaggio di mare e deve provare di tanto in tanto alcuni centimetri di tessuto rosso.
Ciò significa che il compagno che ci ascolta decifra i nostri codici a memoria e comprende e controlla perfettamente ‘la giocata’. È per questo che tutti questi surrogati vocali cambiano velocemente e noi dobbiamo spiegare a chi rientra a Cuba, dopo mesi e anni di assenza, o a chi visita l’isola per la prima volta, di cosa stiamo parlando.
Spiegare Cuba è un compito difficile per chi oggi non la vive. Anche per noi che la viviamo molte cose sembrano indecifrabili: il suo sistema giudiziario, la sua economia, il suo clima, il comportamento sessuale, famigliare e etico. Te ne vai per un anno e quando torni ciò che era proibito è diventato obbligatorio; ciò che era mal visto passa a essere naturalmente accettato; quello che prima era accettato, ora viene condannato. Un gesto villano può diventare di moda; una moneta non vale quanto valeva prima e una persona si diverte con ciò con cui prima non avrebbe scherzato.
La nostra cultura linguistica si satura di tropologia e la nostra gestualità si rifornisce di una varietà incontentabile d’immagini, degni della grande Pina Bausch in momenti di alta improvvisazione. Battiamo le mani, recitiamo, balliamo e ci muoviamo nella nostra ‘imitazione della vita’, ornata di smorfie e brutte parole.
Gli archetipi di questi anni, le frasi rivoluzionarie, i giri e le espressioni della lingua legate alla musica o alla politica assumono sensi differenti. L’espressione ‘Compagno di partito’, ad esempio, lo personifica ancora nella sua prima accezione, un compagno che milita nel nucleo del PCC (unico partito dell’isola). Ma oggi viene usato anche in modo ironico quando qualcuno fa qualcosa fuori dal normale, di esagerato o imprevisto… può essere un saluto tra amici, un’esclamazione nel bel mezzo di una festa, in un incontro pubblico o privato.
Tutto questo riguarda noi, è una conversazione che comprendiamo appieno soltanto tra cubani. Ma lo percepiscono tutti i cubani, quelli che vivono ancora a Cuba e quelli che non ci sono? I codici cambiano rapidamente.
Estoy obstinado/a oggi viene usato come indice di stanchezza, di noia, di sfinimento quotidiano. Ostinazione, testardaggine, caparbietà, insistenza, nello scenario popolare-conversazionale hanno smesso di essere l’unico significato. Tutto ciò accade nel nostro presente continuo, che sostituisce le frasi, le parole, l’intonazione, le L con le R e modifica la semantica a seconda del contesto, della classe sociale e dei referenti sociali, storici, politici, musicali, estetici, geografici e sensoriali.
Tradurci per il cinema o in letteratura sta diventando quasi impossibile.
Quest’isola deve continuare a essere raccontata, narrata e cantata con la brillantezza, lo spirito e l’acutezza che ci caratterizzano. Il nostro linguaggio e i nostri gesti endemici meritano di essere enunciati con autenticità e luminosità. D’altro canto, rimarremo ancorati eternamente a un discorso nevrotico comprensibile solo a noi e per decadi daremo la rotta, parlando da soli.
Wendy Guerra
(Habáname, 27 dicembre 2013)
Traduzione di Silvia Bertoli