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Fulvio Tomizza. “La ragazza di Petrovia” (1963) 
La trilogia istriana a cura di Marisa Cecchetti/ 2.
17 Dicembre 2013
 

Fulvio Tomizza

La ragazza di Petrovia

Oscar Mondadori, 1975

 

Pubblicato nel 1963, secondo romanzo della trilogia istriana di Fulvio Tomizza, La ragazza di Petrovia ci porta direttamente nei campi profughi. Se in Materada avevamo visto partire i camion con direzione territorio italiano, ora li vediamo arrivare negli spazi organizzati oltre confine. Se l’abbandono della propria terra, seppur non imposto, è stato una violenza, la consegna degli sradicati è altrettanto crudele, e sta tutto in quell’incipit che non dà spazio alla pietas: «vennero i camion e bloccarono i freni, si fermarono qui fra le baracche dai vari colori come arrivassero da competizioni diverse, vinti e insieme vincitori. Veramente dalla foga con cui avanzavano poteva sembrare che tutti avessero vinto; ma la sconfitta venne dopo… fermi sotto il sole che picchiettava specchiandosi nelle pozzanghere, e nessuno si curava di levare alte le masserizie, né di abbassare le sponde o di tirare giù il tendone».

Sono contadini istriani, hanno lasciato case, animali, la terra che scandiva i ritmi delle stagioni, il loro dialetto, le abitudini di una vita. Ora ogni famiglia vive in una baracca, attende l’ora di mangiare a mensa, gli uomini si ritrovano al circolo, il tempo è vuoto. C’è un’immobilità di vita mai sperimentata prima, che toglie senso alle giornate, che abbassa la fiducia in se stessi, aperta ai ricordi che bruciano, alla nostalgia, alla paura del futuro tutto da scoprire e da progettare.

Al campo arriva da Petrovia una ragazzetta semplice, che ha il permesso di uscita di due giorni, poi deve tornare in territorio slavo. Porta con sé la sua colpa e il suo segreto, quello di aspettare un figlio da un giovane a cui si è concessa, che ora sta con la famiglia nel campo profughi e che lei vuole incontrare.

Giustina è carica di attese e di speranza quando arriva al campo, ma coglie piano piano intorno a sé i segni molto chiari di disagio, di deprivazione, di disadattamento. La sua stessa figura suscita nostalgia e innocente invidia, perché lei può tornarsene a casa, lei è il passato che turba. L’incontro stesso con Vinicio, il ragazzo che va cercando, non è risolutivo della sua situazione, lui è uno sconosciuto, esterno alla sua vita. Solo un prete riesce ad alleggerirla dal carico della responsabilità e della colpa che porta con sé, portandola con pazienza ad aprirsi ed a parlare.

Il permesso è scaduto e lei fugge dal campo senza considerare il rischio. Tornerà a Petrovia con nuove certezze, sapendo che è più fortunata, consapevole di che cosa la aspetta, ma finalmente serena: «sente che potrebbe pronunciare a voce alta anche le parole che prima non le venivano, perché ora non prova più alcun timore né alcun interesse a proferirle… Si avvia, dapprima a lenti passi come misurando il terreno sotto i piedi con un vago sorriso di trionfo o di sfida per essere riuscita un’altra volta a tendere agli “altri” quel suo sottile inganno, per avercela fatta a fuggire proprio sotto i loro occhi… poi di corsa, come non le importasse più nulla di tutto questo né di null’altro, e come stesse correndo libera nel sole».

Ma è destino che non arrivi a Petrovia superando il confine nella notte. Rimane simbolo di dolore e di sconfitta, accogliendo su di sé quello della gente che ha lasciato nei campi profughi a combattere con innumerevoli problemi.

 

2. (segue)


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