Sarebbe bello se a Torino e a Milano, a Venezia e a Bologna, a Firenze e a Roma, a Napoli e a Palermo, e ovunque ci sono consiglieri della Rosa nel Pugno, venisse presentato un ordine del giorno per intitolare una strada o una piazza ad Anna Politkovskaja, la giornalista russa che per i suoi coraggiosi reportages dalla Cecenia e per le circostanziate denunce dei corrotti del nuovo potere moscovita, si era attirata le “attenzioni” del Cremlino, e alla fine ha pagato con la vita.
Sarebbe bello se il ministro della Pubblica Istruzione invitasse le scuole ad adottare, come lettura facoltativa, il libro di Anna Politkovskaja, Viaggio all’inferno. Diario ceceno: un testo fondamentale per comprendere il dramma della piccola repubblica caucasica. E sarebbe bello che ogni biblioteca comunale decidesse l’acquisto di almeno una copia di questo libro.
Sappiamo che da anni era nell’occhio del mirino. Nel febbraio del 2001 era stata arrestata in Cecenia ed espulsa con l’accusa di aver violato le norme sulla copertura giornalistica del conflitto imposte da Mosca. In sostanza i suoi articoli non soggiacevano al diktat della censura. Nell’ottobre dell’anno successivo tentò di mediare nella crisi del teatro Dubrovka di Mosca, dove un gruppo di guerriglieri ceceni prese in ostaggio oltre 700 persone. Una pagina ancora oscura: le trattative vennero vanificate dall’intervento delle forze speciali russe che uccisero tutti i sequestratori, ma anche molti ostaggi, stroncati da una dose letale di un gas segreto.
Nel dicembre del 2004 infine, durante la crisi della scuola di Beslan, dove un gruppo di terroristi ceceni prese in ostaggio 1.200 persone, Anna fu colpita da un sospetto caso di avvelenamento. Si trovava a bordo di un aereo che la stava portando in Ossezia; ancora una volta si era offerta come mediatrice, qualcuno le servì del the “corretto” al veleno. La scampò per miracolo. Mentre lei lottava per la vita, le forze speciali russe intervennero, e fu una strage: quattrocento le vittime, metà bambini.
Quella della Politkovskaja, del resto, non è la prima “pratica” che a Mosca viene definita in modo così brutale. Nel luglio dello scorso anno era toccato a Paul Klebnikov, direttore dell’edizione russa di Forbes, ammazzato da killer rimasti ignoti, e nel febbraio scorso venne ucciso Ilia Zimin, editorialista dell’emittente NTV. Ma la lunga lista dei morti ammazzati comprende altri giornalisti, e banchieri, uomini d’affari, militari, poliziotti. Tutti con una caratteristica: criticavano pesantemente l’attuale leadership al Cremlino: per i tantissimi casi di corruzione, per la guerra in Cecenia, per la politica verso le altre repubbliche ex sovietiche, per le questioni legate allo sfruttamento del petrolio e del gas.
Temuta per la sua penna al vetriolo, Anna aveva indagato a fondo su una quantità di casi di corruzione; e ultimamente, racconta il direttore della Novaja Gazeta stava raccogliendo compromettenti testimonianze e dossier su casi di tortura da parte degli spetnaz, le truppe scelte russe che combattono in Cecenia. L’hanno uccisa prima che potesse terminare il suo lavoro. Come Antonio Russo, il cronista di Radio Radicale ucciso perché i suoi reportages da Grozny davano fastidio. E viene da chiedersi fino a quando l’Occidente – in nome degli accordi commerciali, del petrolio e del gas di cui è assetato – continuerà a fingere di non vedere, di non sentire, di non sapere quello che accade a pochi chilometri da noi, in Cecenia: un mattatoio che il Cremlino chiama pace, per usare le parole di André Glucksmann.
Ecco: si potrebbe, proprio, per cominciare, con l’intitolare strade e piazze delle nostre città ad Anna Politkovskaja e ad Antonio Russo. Chi ne ha voluto la morte conta anche sulla nostra indifferenza. Ricordare il loro sacrificio, non smarrirne il ricordo, è già un modo per onorarli.
Gualtiero Vecellio
(da Notizie radicali, 9 ottobre 2006)