«Alle Grazie immortali
Le tre di Citrea figlie gemelle
È sacro il tempio, e son d’Amor sorelle;
nate il dì che a’ mortali
beltà ingegno virtù concesse Giove,
onde perpetue sempre e sempre nuove
le tre doti celesti
e più lodate e più modeste ognuna
le Dee serbino al mondo. Entra ed adora».
Così inizia il poemetto di Ugo Foscolo sulle Grazie, composto tra il 1812 e il 1827, anno della sua morte, e dedicato a Antonio Canova.
Le Tre Grazie, con la Venere di Milo e il busto di Nefertiti, è il gruppo scultoreo forse più famoso al mondo. E poco importa se non tutti sanno che è opera di Antonio Canova e che le tre giovani bellezze da lui immortalate sono figlie di Zeus e rispondono al nome di Aglaia, Eufrosine e Talia, sodali di Venere, e che simboleggiano, rispettivamente, lo splendore, la gioia e la prosperità.
Canova le ha interpretate in due esemplari, molto simili, il primo, ora all’Ermitage di San Pietroburgo, glielo commissionò Joséphine de Beauharnaiais all’epoca moglie di Napoleone. L’opera rappresenta le divinità raffigurate nella posizione più canonica, ovvero abbracciate nella classica posizione a chiasmo; le membra incrociate rafforzano il languido abbandono delle figure che, nel sostenersi a vicenda, offrono l’immagine dell’incontro tra affetti diversi che si riuniscono in un unico e corale abbraccio. Il racconto, non si sa quanto veritiero, di François-Yves Bersnard autore del libro di memorie Souvenires d’un monagénaire, identifica le tre figure mitologiche in Madame Tallien, Joséphine de Beauharnais e Juliette Récamier.
Il marmo ottenne un grande successo; Stendhal dichiarò che Canova aveva creato con le Grazie un nuovo tipo di bellezza, e fu proprio in memoria di questo trionfo che lo scultore istituì una dote da assegnare ogni anno a tre fanciulle povere di Possagno.
«Ha voluto farci cogliere nell’abbraccio ingegnoso e nuovo di tre figure femminili che, da qualsiasi lato le si consideri, girando intorno, mostrano, sotto aspetti sempre diversi, una varietà di posizioni, forme, contorni, idee e affetti ingegnosamente sfumati» (Quatremére de Quincy). Il secondo esemplare venne richiesto dal Duca di Bedford che, visto il gesso che lo scultore teneva nel suo atelier romano, lo supplicò di creargli un ulteriore esemplare in marmo. Canova riprese il modello, apportando piccoli cambiamenti e, quasi per allontanare il momento di distacco dall’opera, l’accompagnò personalmente sino alla nuova dimora inglese. Oggi quel magnifico marmo è equamente suddiviso, sette anni ciascuno, dalla National Gallery of Scotland di Edimburgo e dal Victoria & Albert Museum di Londra.
Nella Casa-Museo, nella natia Possagno, Canova lasciò il gesso originale della prima versione delle Grazie, quel gesso su cui aveva lavorato per creare il suo capolavoro. Grazie a questo calco, ai disegni preparatori la realizzazione delle Tre Grazie è possibile esaminare in dettaglio il processo operativo che Canova manterrà per tutta la vita: lo scultore fissava la prima ispirazione in un rapido disegno, poi attraverso passaggi progressivi, tra cui la realizzazione di un bozzetto in creta, giungeva alla definitiva stesura di un modello in gesso nello stesso formato che avrebbe dovuto avere la scultura finita. Sul modello venivano poi fissati dei chiodi, per indicare i punti di riferimento ai lavoranti incaricati di sbozzare il blocco di marmo. Infine levigava con cura meticolosa la superficie della pietra, ottenendo effetti di trasparenza. Per questo motivo sul gesso di Possagno, come su molti altri calchi esistenti delle opere del Canova, sono visibili dei piccoli fori sulla superficie.
La composizione dell’opera è armoniosa e ha un perfetto equilibrio formale.
Le divinità, dalla dolce espressione, sono appena uscite dal bagno e si abbracciano, con le teste piegate l’una verso l’altra, creando un piccolo intreccio. La figura più alta cingendo le compagne, le sostiene e dà una certa compattezza al gruppo, aiutata anche dal gioco di linee disegnato dall’incrociarsi delle braccia e sottolineato dal drappo che le unisce. La morbidezza delle carni e la perfetta posizione dei corpi, ne fanno sicuramente una delle più belle realizzazioni dell’artista. A Possagno giunse anche il gesso tratto dalle Grazie inglesi, quale documento da conservare a perenne memoria dell’arte del grande scultore. I gessi, con altre opere conservate nella Gipsoteca vennero investiti dalla nuvola di calcinacci causata dai cannoneggiamenti austroungarici durante la Prima Grande Guerra, quando Possagno, ai piedi del Grappa, era zona di battaglia. Particolarmente gravi i danni subiti dal gruppo “inglese” che vide le Grazie ritrovarsi con volti e busti drammaticamente lesionati.
All’indomani del conflitto, Stefano e Siro Serafin, custodi abilissimi restauratori, sanarono molti dei danni. Non agirono invece sulle Grazie di Bedford che, deturpate trovarono sede nella sala del consiglio comunale di Possagno. A cent’anni dello scoppio della Grande Guerra, mentre l’Europa si appresta a ricordare quel centenario, anche le Grazie “inglesi” risorgono, ritrovando tutte le loro parti. Grazie alla collaborazione della National Galleries of Scotland, di Edimburgo, proprietari del prezioso marmo, è stato possibile fotografare e scansionare l’opera e grazie all’elettronica si è riusciti a ricomporre le parti mancanti al gesso di Possagno.
A dire dell’incredibile grado di perfezione raggiunto da questa tecnica, che aveva già dato prova di sé per un altro gesso di Canova, La Danzatrice, anch’essa deturpata dalla guerra, che ha ritrovato braccia e cembali.
La mostra resterà aperta fino al 4 maggio, nell’itinerario espositivo si possono ammirare entrambi i gruppi originali in gesso delle Grazie. Con i gessi, i due bozzetti, l’uno proveniente dal Museo di Lione, il secondo oggi proprietà del Museo di Bassano. Poi tempere, disegni, incisioni, sempre intorno al tema delle Grazie.
Maria Paola Forlani